Per vivere abbiamo bisogno di un giudizio sulla realtà, su ciò che accade, su ciò che siamo e che facciamo. Abbiamo bisogno che le cose rispondano a un senso. Non importa che siano facili o difficili, piacevoli o dolorose, ma devono stare insieme tra loro. Bisogna che tra quello che il nostro cuore desidera e il male che i nostri occhi troppo spesso vedono ci sia un qualche nesso. Che la vita non sia un miscuglio di tessere di mosaico che qualcuno si diverte a scombinare.
L’esperienza, anche di questi drammatici giorni di guerra, conferma che quando c’è un senso capace di tenere insieme i pezzi dell’esistenza, la vita può affermarsi in qualunque condizione. Perché in Ucraina donne che potevano fuggire e mettersi in salvo dalla propria terra in fiamme sono restate per condividere la sorte di figli e mariti? Perché a Mosca o a San Pietroburgo la gente è scesa in piazza per manifestare contro la guerra, sapendo che la notte successiva l’avrebbe trascorsa in carcere? Perché quei loro gesti avevano un senso, nascevano, magari inconsapevolmente, da un giudizio. Erano il grido di una speranza che si afferma di fronte ad ogni violenza o bruttura. Perché sperare è un giudizio, non appena un sentimento!
Sperare non è istintivo. “La speranza, dice Dio, ecco quel che mi stupisce. Che quei poveri figlioli vedano come van le cose e credano che domani andrà meglio. Questo è stupefacente”. Se addirittura Dio, lo dice Péguy, si stupisce che gli uomini abbiano speranza, vuol proprio dire che sperare è difficile, che non è istintivo. Ma è ancora Péguy che, guarda caso, aggiunge un giudizio: “Per sperare bisogna essere felice, bisogna aver ottenuto, aver ricevuto una grande grazia”.
Ecco dove si gioca la questione, se questa grazia l’abbiamo ricevuta o no. Perché per sperare bisogna introdurre un fattore in più rispetto a quelli a cui noi “poveri figlioli” siamo soliti guardare. Un fattore che non dipende da noi. Il Mistero della vita e della realtà. L’evidenza che il mondo e noi non siamo autogenerati. Che c’è qualcosa che ci precede e che continua a farci compagnia.
Riconoscere il Mistero come fattore della realtà, questo è un giudizio. Ma noi tendiamo a sostituirlo con la valanga di informazioni di cui ci abbuffiamo, come se la speranza della pace potesse venire dal sapere quanti attacchi ci sono stati, quanti sconfinamenti, quante e quali dichiarazioni, o dal riuscire a capire quale percentuale di torto o di ragione ci sia nelle singole parti in guerra. Come accadeva con il Covid. Quanto più la situazione volgeva al peggio, tanto più venivamo invasi da numeri, statistiche, curve in salita o in discesa, con fior fiore di esperti che si susseguivano sui teleschermi. Oggi le cose non sono cambiate. Ai virologi si sono sostituiti i generali e noi siamo ancora lì ad inseguire notizie e analisi che ci rendono sempre più impauriti e pieni di angoscia.
Qualche mese fa, al compimento dei suoi cento anni, il filosofo Edgar Morin, in un’intervista a Repubblica, aveva parlato della necessità di insegnare ai più giovani il senso critico. “Viviamo in un’epoca di vuoto del pensiero” affermava, aggiungendo che è urgente una “educazione alla problematizzazione, che significa insegnare ad interrogarsi, avere la capacità di farsi delle domande”.
Forse è questo vuoto del pensiero, questa debolezza del giudizio che ci rende non solo sempre più scettici ed impauriti, ma ci lascia come spettatori impotenti di fronte a una generazione di giovani cui manca la “capacità di guardare al futuro”. Lo diceva Giorgio De Rita commentando i dati del rapporto Censis del dicembre 2021, da cui emerge che la nostra scuola continua a perdere studenti, ben 280mila in meno negli ultimi 5 anni. Abbandonano la scuola perché hanno perso il senso delle cose: “i ragazzi si chiedono perché mai dovrebbero studiare, pensare al futuro, non hanno ragioni”.
Dire che c’è bisogno di un giudizio, che mancano le ragioni, che viviamo in un tempo di vuoto del pensiero, sembrerebbe aprire ad occupazioni da intellettuali. E pensare che uno dei giudizi più formidabili che a me, come forse a tanti, è capitato di sentire, è una frase pronunciata da una donna che sicuramente intellettuale non era, e che una mattina degli inizi del secolo scorso, in un paese della Brianza, sotto uno splendido cielo aurorale, aveva esclamato: “Com’è bello il mondo e come è grande Dio!”. Era Angelina Gelosa, la mamma di don Giussani. E quella frase era un giudizio così potente che Giussani stesso ricorderà l’episodio come “uno di quei momenti che contengono la chiave di volta per tutta la vita”. Da persone così, e a ben guardare anche oggi ce ne sono, anche noi possiamo imparare a giudicare.
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