Il “maggior pittore militarista d’Europa”, “un innamorato delle battaglie”, “l’unico pittore di battaglie degno di questo nome in Europa”. Questi alcuni dei giudizi espressi dai critici contemporanei su Giovanni Fattori, vissuto nel XIX secolo e tra gli esponenti di spicco della corrente dei Macchiaioli. Anche se nella vasta produzione dell’artista toscano non mancano suggestive scene agresti, paesaggi, splendidi ritratti, originalissime rappresentazioni del “vero” nei suoi aspetti di vita semplice e schietta, i soggetti di vita militare occupano una parte importante che lo ha fortemente caratterizzato. Su 800 opere censite a lui attribuite ben 250, poco meno di un terzo, hanno in effetti come protagonisti soldati, a riposo o in piena azione, da soli o in gruppo, in scenari di guerra o a riposo negli accampamenti.
L’occasione è lo sbarco a Livorno, cui assiste, del contingente francese guidato dal generale Girolamo Napoleone Bonaparte, giunto in Italia per unirsi alle forze piemontesi contro l’Austria, nella II Guerra d’indipendenza. Giovanni segue con crescente entusiasmo, armato solo di un taccuino da disegno, lo spostamento delle truppe per le vie di Pisa ed Empoli, fino a Firenze, allora capitale del Regno d’Italia, dove si fermeranno per un mese al pratone delle Cascine, prima di proseguire per il nord. Nessun intento apologetico, solo l’osservazione dal vero di uomini e armamenti. Più che per il soldato, l’attenzione è per la persona, in tutta la sua dignità. L’artista guarda il soldato con rispetto e indulgenza, vittima ed eroe nello stesso tempo.
Ciò che interessa a Fattori, più che la rappresentazione degli eventi bellici, è il contesto in cui avvengono, la situazione umana, in un certo senso il mistero che li avvolge. Così vediamo uomini in divisa, spesso a cavallo, raffigurati in perlustrazione, in avanscoperta, in vedetta, immersi in un’atmosfera di vigile attesa di un nemico in agguato. Oppure protagonista è la vita negli accampamenti: la consegna degli ordini e della posta che arriva da casa, l’ozio e la noia di giornate tutte uguali. Le battaglie ci sono, ma anche quando sono dipinte con un intento celebrativo, come Garibaldi a Palermo (1860-1862), il pittore mette in primo piano, davanti ai nostri occhi, i caduti. Sono le vittime dei violenti scontri avvenuti nel capoluogo siciliano il 27 e 28 maggio 1860, con i Mille sotto il fuoco incrociato dei borbonici e della popolazione insorta, che ha invaso le strade e innalzato barricate.
Ancora più evidente l’approccio antieroico e realistico di Fattori in un altro celebre quadro, sempre in mostra a Torino, Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta (versione ridotta, 1862), che gli valse notorietà e il primo premio in un concorso. Più che sulla vittoria, si sofferma sulle retrovie, sui combattenti stanchi o feriti. Infatti al centro della scena c’è il carro delle monache che presta soccorso ai feriti, anche austriaci, come il soldato all’interno dell’ambulanza, riconoscibile per la divisa. Nessuna distinzione tra vincitori e vinti.
Le opere dell’artista livornese, quadri e bozzetti, il più delle volte sono di piccolo formato, quasi a sottolineare che il suo scopo non è commemorativo, ma più semplicemente è un invito sommesso alla riflessione. Scene e personaggi della vita militare sono spesso collocati in paesaggi luminosi dove domina “l’ampio respiro della campagna, delle foreste, del mare”. C’è continuità tra la natura, l’esistenza quotidiana e le vicende belliche, ritenute normali.
Ma passata l’ubriacatura patriottica, a unificazione avvenuta, cresce la delusione di Fattori e della sua generazione per il tradimento degli ideali risorgimentali. I sacrifici di quanti erano caduti in battaglia non erano serviti a creare un’Italia diversa e più giusta. Si fa così strada una nuova fase di denuncia e di analisi attenta e meditata sull’inutilità del ricorso alla violenza, che si esprime in due dipinti di notevole impatto emotivo: Soldati abbandonati (1873) e Lo scoppio del cassone (1878-1880). Nel primo vediamo i corpi di due caduti sconosciuti che giacciono su una strada desolata, con “nient’altro che venga a violare il silenzio terribile del loro perduto orizzonte, se non le macchie scure di qualche pino lontano, oppresse da un vuoto cielo di gesso”. Nel secondo dipinto, riferito alla III Guerra d’indipendenza del 1866, lo scoppio di un cassone militare che trasportava polvere da sparo e munizioni travolge uomini e cavalli.
Non più quindi le grandi battaglie risorgimentali della giovinezza. In età matura Fattori si concentra su singoli anonimi episodi, che rivelano il dramma della guerra, vista ora sempre più come un fatto distruttivo e portatore di morte. Al posto degli scontri in armi, l’esito tragico di quegli scontri. La guerra non è più descritta, ma evocata. E il messaggio è chiaro: non si deve morire per la patria, ma vivere per la patria.
Emblematico quello che è riconosciuto come il suo capolavoro assoluto: In vedetta (Il muro bianco), del 1872. Raffigura, uniche presenze sulla scena, tre cavalleggeri in perlustrazione in un luogo arido e deserto, sotto un sole cocente, a simboleggiare la solitudine del soldato, sempre pronto a fronteggiare un pericolo imminente e invisibile. Fa riflettere quel muro che incombe, in un’epoca come la nostra dove avremmo dovuto abbattere muri ed erigere ponti. E invece i ponti si distruggono e siamo tornati a costruire muri.
Ma la lezione di Fattori, ancora attuale dopo un secolo e mezzo nella nostra era supertecnologica e spietata, è che pure nelle circostanze più difficili non bisogna mai smettere, con umiltà, di contemplare lo spettacolo della vita.
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