Mohammed, egiziano, per tutti Momo, era un ragazzo difficile in un quartiere periferico difficile di Milano, più incline alle risse che ai libri. Adesso è nello staff che guida Portofranco, l’opera di aiuto gratuito allo studio in cui è capitato per caso nel 2008 e da cui non si è più staccato anche dopo aver finito la scuola. “Per me è una casa. Il rapporto umano è la cosa principale, quella che ha fatto diventare grande anche me”.
Aleksey, napoletano con mamma appassionata di Dostoevskij, il padre non l’ha mai conosciuto: “Ha fatt’o guaio e se n’è juto”. Lui, liceale bravissimo, all’ultimo anno va in crisi e si chiede: “Ma che sto facendo?”. Al “Puort’sicuro”, il Portofranco partenopeo, scopre una traccia: “Non era un’ora in cui imparavi qualcosa che poi, dopo l’interrogazione, resettavi. Per la prima volta ero davanti a qualcuno che cercava di farmi capire il senso dello studio, perché ne valeva la pena”. Ora si sta affermando nell’informatica.
Sono due delle decine e decine di storie esemplari che si incontrano a Portofranco, rete di cinquanta centri di aiuto allo studio, sparsi in tutta Italia, frequentati da migliaia e migliaia di ragazzi delle scuole superiori, in cui operano come docenti, a titolo gratuito, ottocento volontari.
Sono mille storie di recupero scolastico, certo, ma più in profondità, storie di fioritura umana, di ritrovata stima di sé, fiducia, gusto, creatività in tanti ragazzi. Senza questa rinascita dell’umano, addio fichi. A Portofranco è dedicato, sotto questa luce, l’agile e interessantissimo volumetto di Davide Perillo, Fuochi accesi. I ragazzi di Portofranco, un’esperienza di educazione e integrazione (San Paolo, 2022).
“I ragazzi non sono vasi da riempire ma fuochi da accendere”. Perillo ha letto queste parole di Plutarco scritte col gesso colorato sulla lavagna nera che sta in cima alle scale, all’ingresso della sede di Portofranco di Milano. E ne fa tesoro: il libro racconta decine e decine di storie di ragazzi il cui fuoco si è acceso. Lo fa attraverso un viaggio in cinque tappe in altrettante città sedi di Portofranco: Milano, Bologna, Palermo, Rimini, Napoli.
In questo viaggio, Perillo ha raccolto la viva voce di un’ottantina di ragazzi e volontari e un centinaio di testimonianze scritte. Ce ne restituisce tantissime, ad alcune dedicando un capitolo intero, ad altre anche mezza paginetta. Vale la pena leggerle tutte, ad una ad una, perché nessuna è fotocopia di un’altra. Anche se tutte sono accomunate da parole chiave come accoglienza, libertà, stima (e autostima), valorizzazione, gratuità.
Giovanni Borgonovo, che incontriamo a pagina 35, è un professore di scuola in pensione (ha superato l’età ultrasinodale dei settanta) che si occupa dei colloqui di accoglienza con i genitori (ne fa almeno trecento all’anno). Da buon brianzolo, va dritto al concreto: “Accanto ai classici temi scolastici, mi parlano sempre più spesso di altri problemi: timidezza, dislessia, malattie, depressioni. Di un’incapacità generale nel gestire situazioni difficili, come l’ansia o la paura dell’insuccesso. Ma in tutti vedo due cose: il bisogno che i figli si sentano accolti e lo stupore quando si rendono conto che può succedere”.
I docenti sono insegnanti in pensione, o anche in attività, universitari degli ultimi anni; non mancano altre figure come ingegneri, giornalisti eccetera. I ragazzi sono di ogni nazionalità, cultura, religione e livello di profitto.
Portofranco da vent’anni contrasta efficacemente il fenomeno della dispersione scolastica, che sappiamo particolarmente grave nel nostro Paese. Ma non solo: è un singolare tentativo di risposta alla cosiddetta emergenza educativa.
Ma non è una seconda scuola. Non è neanche un doposcuola dove un po’ si ripetono le lezioni “frontali” e magari un po’ si gioca per passare il tempo. Nemmeno si basa, Portofranco, sull’applicazione di una qualche moderna strategia pedagogica. La sua forza, e la sua originalità, poggia sul rapporto personale, umano, tra docente e ragazzo, fatto di accoglienza e di gratuità. In clima di libertà, come appunto la parola Portofranco evoca.
Le ore di aiuto allo studio consistono nel fatto che un docente si affianca a un ragazzo (uno solo) per accompagnarlo nella comprensione di un testo, nell’apprendimento di un argomento, nell’esercitazione, nella preparazione alle verifiche delle diverse materie. “Qui c’è un adulto per me, i tempi li detto io” (pag. 24). Poi ci sono i “tutor”, che i singoli ragazzi li seguono costantemente al di là delle materie nell’evolversi del loro percorso.
Nel libro non si dimenticano il personaggio che ha iniziato né alcuni che hanno offerto spunti ideali di ispirazione. L’ideatore, innanzitutto: don Giorgio Pontiggia, seguace di don Luigi Giussani, sanguigno e irruento rettore dell’Istituto Sacro Cuore di Milano e guida di Gioventù Studentesca all’epoca dei fatti: avvento del nuovo millennio. “Se dobbiamo aiutare i ragazzi – disse in un incontro decisivo – facciamolo nel punto dove fanno più fatica: la scuola. Cominciamo da lì”.
Il primo successore di don Giussani, don Julián Carrón, lo cita il cardinal Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, nella sua prefazione al libro: “L’educazione è un’opportunità strepitosa a patto che a coglierla siano adulti senza volontà di possesso, animati solo dal desiderio di condividere quello che abbiamo ricevuto”. Zuppi accosta Portofranco all’esperienza della Scuola di Barbiana, condotta da don Lorenzo Milani: “I ragazzi dicevano di lui che voleva che noi si capisse Tu vali, tu sei importante”. Pier Paolo Pasolini, invece, è chiamato in causa da Perillo: “Se qualcuno ti ha educato, può averlo fatto solo con il suo essere, non con le sue parole”.
Non resta che leggere per credere.
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