Per l’Ucraina si sta preparando uno scenario “vietnamita”? Quando la guerra scatenata dalla Russia sta entrando nella quarta settimana più di un indizio sembra portare in quella direzione: anche un simile approdo della crisi difficilmente era fra le “prime scelte” del Cremlino e probabilmente non rientra neppure nei “desiderata” degli altri player (a cominciare dalla presidenza in carica a Kiev). La scissione in due del Paese e la prosecuzione di una conflittualità endemica si presenta tuttavia come uno sbocco non irrealistico di relativa stabilizzazione del teatro di guerra aperta.
La situazione sul terreno vede occupate dalle forze russe zone limitrofe ai confini e già soggette alle tensioni separatiste che hanno portato alla nascita delle cosiddette “repubbliche” del Donetsk e Luhansk. L’avanzata batte le grandi città (Kharkiv a est e Mariupol a sud) che probabilmente Mosca vuole far proprie (Kharkiv in particolare è carica di memorie belliche della Grande Guerra Patriottica contro la Germania nazista).
La capitale Kiev è ora nel campo di tiro dell’esercito russo. Era certamente un obiettivo del blitz (fallito) finalizzato a rovesciare il presidente Zelensky e il governo democratico. Non sembra invece più sicuro che possa essere il “trofeo” finale del raid di Vladimir Putin. La metropoli distesa sulle due rive del Dniepr da un lato è naturalmente proiettata nel ruolo di simbolo di un’Ucraina divisa fra Est e Ovest (anche Gerusalemme ha assunto per anni la stessa postura nel conflitto fra Israele, la Giordania e i palestinesi). Ma dall’altro la resistenza di queste settimane potrebbe meritare ai suoi abitanti la permanenza alla guida di un’Ucraina “occidentale”, nell’immediato presieduta ancora da Zelensky. Meno realistica – anche se suggestiva – appare l’ipotesi di Kiev “città libera”, nei fatti però oggettivamente premiante delle pretese di Putin di un’intera Ucraina “smilitarizzata”, rigidamente neutrale.
Lo stesso destino di Odessa – l’altra “città trofeo” del paese invaso – è tutt’altro che irrilevante. È vicinissima alla Crimea, già invasa e annessa alla Russia nel 2014. È il porto-simbolo di quel Mar Nero che la Russia vorrebbe “smilitarizzato” (dalle forze navali Nato) nella sua secolare ossessione di essere respinta o chiusa sui “mari caldi”. Ma era e resta una della grandi città israelite d’Europa: forse la sola rinata come tale dopo la Shoah. Non è un caso che il premier israeliano Naftaly Bennett sia entrato in partita con decisione (è l’unico a essere volato a Mosca dopo l’inizio della guerra) e non solo perché a Kiev presidente e premier sono israeliti: Odessa (fulcro dell’Ucraina costiera fino alla frontiera moldava) sembra essere strategica tanto quanto la capitale nel disegno della faticoso “cessate il fuoco” in Ucraina. Per questo non ha sorpreso neppure che nella concitazione bellica – e nel gioco ininterrotto delle fake news – sia entrata anche una polemica momentanea fra il governo di Kiev e quello di Gerusalemme, accusato di volere la “resa” dell’Ucraina.
Nei fatti resta poco probabile che l’Ucraina sovrana si arrenda a Mosca. È più verosimile che sia Putin a dichiarare unilateralmente conclusa la sua cosiddetta “operazione militare speciale” per il raggiungimento dell’obiettivo della “liberazione” del Donbass. Sarebbe il probabile atto di nascita di un’Ucraina “vietnamizzata”. Senza dimenticare altri precedenti, tutti maturati nel dopo-Seconda guerra mondiale: quelli della Corea o della stessa Germania fino alla caduta del Muro.
È uno scenario di status quo (“guerra fredda” o “pace calda” a seconda dei punti di vista) che difficilmente potrebbe soddisfare alcun leader occidentale, anzitutto europeo. Tutti, in ogni caso, potrebbero vantare di aver “resistito” con successo a fianco di Zelensky e di non essere scesi a patti con Putin. Quest’ultimo rimarrebbe il dittatore-“paria” colpito da mega-sanzioni economiche, fin d’ora attratto da posizione debole nell’orbita cinese. Agli Usa – appena usciti faticosamente dall’avventura afghana cinquant’anni dopo la fuga da Saigon – potrebbe non risultare sgradito che il “Vietnam” del ventunesimo secolo si trovi a diecimila chilometri dal Nord America. Un cuneo piantato nel fianco della Vecchia Europa, di relativo disturbo anche per la Cina.
L’Ucraina “libera” potrebbe accelerare nell’ammissione alla Nato e alla Ue, anche se difficilmente sarebbe un Paese “normale”. Non lo è mai stato il Vietnam del Sud, infine sparito dalla carta geografica; lo è stata invece alla fine la Corea del Sud. Seul, però, a settant’anni dalla guerra fra le due Coree ha ancora come vicino uno degli Stati più problematici del pianeta: un regime dispotico, nucleare ma poverissimo. E poi – quando fu deciso di fatto il confine al 38esimo parallelo – la Cina popolare era appena stata proclamata ed era un gigantesco reperto medioevale nell’era atomica. Mezzo secolo dopo la morte di Mao nulla è più, potrà più essere esattamente come allora. Neppure in Ucraina.
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