“Non c’è bisogno di analisti ed esperti particolari” ci ha detto in questa intervista Marco Di Liddo, responsabile dell’Area Geopolitica e analista responsabile del Desk Africa e del Desk Russia e Balcani del Cesi (Centro Studi Internazionali), “basta andare a rileggersi I Promessi sposi di Alessandro Manzoni quando racconta il famoso ‘sacco del Forno delle grucce’, la rivolta del pane a Milano. Quando una persona ha fame, è pronta a lasciarsi sopraffare anche dalla violenza più estrema”. E’ questo il rischio che, più di tutti, corre il continente africano. Tutto il mondo, a causa della guerra in Ucraina, sarà colpito a breve da una crisi legata alla carenza di grano e cereali: “Russia e Ucraina sono i maggiori esportatori al mondo di questi alimenti e l’Africa, che purtroppo soffre di una mancanza endemica di capacità e ammodernamento dei sistemi di coltivazione, nonostante le possibilità, rischia di esplodere. Ricordiamoci che le Primavere arabe nacquero proprio per questo motivo, la fame: ‘pane, libertà e giustizia sociale’ gridavano i manifestanti in Egitto”.
L’Istituto per l’economia mondiale di Kiel, in Germania, fa sapere che la guerra in Ucraina potrebbe mettere in ginocchio il continente africano, che importa grandissime quantità di grano. E’ una previsione plausibile?
Assolutamente sì. Bisogna considerare che Russia e Ucraina sono i principali esportatori di grano, sementi e anche fertilizzanti al mondo, in particolare verso il bacino del Mediterraneo allargato, quindi inclusi molti paesi africani, in particolare Egitto, Algeria e Tunisia. Sono paesi che hanno una quantità di terra arabile modesta e perciò sono forti importatori di cereali.
Sempre secondo l’Istituto di Kiel, la situazione potrà peggiorare già nei prossimi mesi, è così?
A causa della guerra e di una diminuzione dei raccolti e anche per il fatto che in una situazione di crisi la Russia potrebbe pensare di cambiare i suoi volumi di export per mantenere le scorte vitali, c’è il rischio che nel continente africano si vada incontro presto a una crisi di fornitura, uno shock sui prezzi e sulla disponibilità degli alimenti di base.
Questo potrebbe causare proteste, violenze, sommosse?
Un’impennata del prezzo del pane potrebbe avere un effetto catastrofico sulle società civili, potrebbe diventare cioè un elemento che fomenta le proteste. Ricordiamoci che le Primavere arabe sono iniziate come proteste del pane, prima che assumessero il carattere di proteste politiche.
Tutto questo, però, ci dice di un continente gravemente arretrato, nonostante le grandi possibilità naturali che ha. Lo Zimbabwe, ad esempio, una volta era considerato il granaio d’Africa. È d’accordo?
Lo Zimbabwe è un esempio molto particolare. Era definito granaio d’Africa quando c’era la dominazione coloniale, in seguito all’indipendenza e con le politiche sconsiderate di nazionalizzazione imposte dal presidente Mugabe la produzione agricola è crollata. Le nuove forze politiche non sono ancora riuscite a rimediare ai suoi disastri.
Anche paesi come il Sudafrica sono a rischio, sebbene sia, almeno in parte, uno dei paesi africani più moderni. Come mai?
Il Sudafrica ha un problema gigantesco, quello della gestione della terra arabile, perché non è mai stata attuata una riforma agraria profonda che portasse a una redistribuzione delle terre ai lavoratori e ai mezzadri, come la riforma agraria del nostro Mezzogiorno. Molte di quelle terre risultano incolte o mal coltivate, perché fanno parte di proprietà individuali di capi tribali locali, che le trattano alla stregua di loro appezzamenti di terra, non le gestiscono con un’ottica imprenditoriale. In questo senso un paese come il Sudafrica può contare su un oceano di braccianti che per sopravvivere devono fare quello che facevano i nostri contadini del Sud Italia, la cosiddetta spigolatura, raccogliendo quello che sfugge alle mietitrici. C’è la terra, ma non c’è la cultura della coltivazione.
In Nigeria invece il magnate Aliko Dangote, considerato l’uomo più ricco dell’Africa, ha esortato il governo del suo paese a bloccare le esportazioni di mais. Potrebbe funzionare o causerebbe nuova povertà nel continente?
In Nigeria c’è lo stesso problema che affligge il Sudafrica: la terra coltivabile deve essere sottratta ai capi tribali. Questa terra va anche sottratta ai pascoli, oggi sono terre lasciate ai pastori seminomadi. Se l’agricoltura avanza in maniera incondizionata, senza prima arrivare ad accordi, a compromessi con i pastori, succede quello che capita nel Sahel da oltre dieci anni: pastori e agricoltori si combattono con violenza e ferocia.
L’Etiopia, davanti a questa minaccia imposta dalla guerra in Ucraina, ha annunciato un programma in grado di aumentare fino a 400mila ettari, rispetto agli attuali 160mila, le superfici dedicate alla coltivazione di grano estivo. E’ un esempio da seguire per il resto del continente?
L’Etiopia ha il vantaggio che sta ultimando la Grande Diga del Rinascimento, così avrà una disponibilità idrica nuova e potrà cambiare completamente la geografia agricola nazionale. Questo cambiamento sta però avvenendo con lo spostamento forzato di intere comunità da una regione all’altra. Anche qui il rischio di accendere un conflitto interno già esistente è molto serio.
Sapendo come le popolazioni africane reagiscono con le rivolte anche violente, dobbiamo essere preoccupati?
Assolutamente. Ce lo insegna Manzoni: anche la persona più quieta, se deve nutrire la propria famiglia e non trova cibo, diventa violenta. C’è il rischio che nel breve periodo scoppi una bomba sociale, a partire dalla costa mediterranea e poi, a cascata, giù per tutto il continente africano.
(Paolo Vites)
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