Il 10 marzo la Camera dei deputati ha votato il testo della legge sul “fine vita”. Ho svolto la dichiarazione di voto, contraria al provvedimento, rappresentando una parte della sensibilità del gruppo di Italia viva.
Ho pensato molto a ciò che stavo per dire, trattandosi di un tema che riguarda la vita, le esperienze che ognuno ha affrontato, le coscienze. Basta parte del titolo della legge per comprendere il peso dei voti che abbiamo fatto: “morte volontaria”.
Non ho la “verità in tasca”, per questo ho ascoltato tutti gli interventi in queste lunghe e faticose settimane di voto in aula: ascoltare, dialogare ma anche ricercare nella propria esperienza persone, testimonianze, incontri, che la realtà ti ha fatto conoscere, così si può formare un giudizio e quindi la decisione su come votare.
La mia più grande perplessità sulla legge è che una norma su questo tema non è solo – e non può essere solo – la risposta a una casistica precisa, definita e delineata, con contorni chiari e netti, perché una legge in quanto universale non può limitarsi a singoli e sparuti casi e perché inevitabilmente una norma promuove una cultura e apre una prospettiva che non ha contorni e confini chiari, delineando un percorso quindi che difficilmente possiamo sapere dove e come finirà.
Se entra, come entra, in una norma il concetto di “dignità” della vita è impossibile prevedere dove questo concetto, del tutto soggettivo, possa portare.
Da sempre nel rapporto tra paziente, famiglia e medici, senza carte bollate e avvocati ma nel rapporto fiduciario, chi soffre viene accompagnato nei suoi ultimi giorni cercando di evitare sofferenze e accanimenti. Pensare che questo rapporto possa essere oggetto di una legge, norme, codici, sentenze, ricorsi, processi, mi fa dire che ciò che è scritto rappresenta solo l’inizio di ciò che vedremo nei tribunali.
Sono certo e convinto che chi ha voluto, chi ha lavorato in Commissione e migliorato la legge abbia voluto e voglia limitare ed arginare i casi di morte volontaria. Gli articoli 1 e 3 per esempio, dimostrano questa volontà.
Nonostante gli sforzi per costruire un argine, un confine, un limite normativo, quello che penso è che tutto è, e sarà, ampiamente interpretabile. “Patologia irreversibile, prognosi infausta, condizione clinica irreversibile”, ma anche “trattamenti sanitari di sostegno vitale”, rappresentano mattoni per delimitare quel confine e quell’argine ai casi in cui consentire la “morte volontaria”, ma paradossalmente rischiano di essere le stesse pietre che singoli tribunali con singole sentenze utilizzeranno per demolire quell’argine, e la buona volontà di chi ha voluto e scritto la legge sarà messa in un angolo.
Non difendo affatto chi nel dibattito e da anni continua a pensare che la soluzione sia una forma di accanimento terapeutico, tenendo in vita per forza e con macchine chi soffre, ma continuo anche a credere e sperare che arrivi presto un dibattito che con la stessa energia e passione di queste lunghe giornate porti il Parlamento a discutere di misure in aiuto a persone che soffrono e alle loro famiglie.
Un mio grande amico malato di Sla, scomparso alcuni anni fa, disse nel novembre del 2016 ad un convegno di Aisla: “…Il nostro cuore è desiderio di vita e di felicità e la malattia e la sofferenza non fanno altro che aumentare questo desiderio. Ma in certe malattie non si possono trovare risposte dalla medicina. La nostra umanità quindi ha bisogno di qualcosa di fondamentale per poter affrontare le grandi difficoltà di una malattia come la Sla. È insostituibile pertanto l’esperienza di essere amati. Quello che salva dalla disperazione è poter affrontare la malattia con i familiari, gli amici e i medici che fanno uscire dalla solitudine e mostrano il valore insostituibile e unico della persona. Non può mancare da parte di chi sta intorno ai malati questa attenzione, questa tenerezza. Per non cadere nella disperazione abbiamo bisogno di vincere la solitudine con persone competenti ma ricche di umanità, perché la malattia molte volte ci provoca la domanda: ‘Come vuoi morire?’. Questa domanda tuttavia ne suscita un’altra più importante ancora: ‘Come si fa a vivere?’ e questo riguarda il presente, riguarda ogni giorno, riguarda le scelte inevitabili. Per tutto ciò, noi pazienti abbiamo bisogno di incontrare persone che, con la loro competenza e la loro professionalità, ci mostrino un’umanità capace di ascoltare le domande, la sofferenza e i problemi…”.
Non c’è bisogno di una norma che “aiuti a vivere”, perché semplicemente è una legge naturale; per questo è innaturale che ci sia una legge che aiuta il suo esatto opposto, a morire.
Nella nostra cultura c’è il valore della vita, il diritto alla vita, l’aiuto a vivere con dignità, non il diritto a mettere fine alla vita.
Per tutto questo ho votato contro questa legge.
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