Nella serata del 19 marzo 2002 veniva assassinato dalle Brigate Rosse il Professor Marco Biagi. L’ultima vittima, dopo i tragici agguati che sono costati la vita ai Professori Ezio Tarantelli e Massimo D’Antona, di una stagione di odio nei confronti degli intellettuali che hanno cercato di offrire un contributo di idee e di progettazione per riformare le politiche del lavoro per adeguarle alle mutate condizioni economiche e sociali.
Marco Biagi era un autentico innovatore, un giuslavorista stimato in ambito europeo, capace di interpretare le trasformazioni del mondo del lavoro nella loro complessità attraverso il concorso di diverse discipline e con il contributo attivo degli attori sul campo, in particolare delle rappresentanze delle imprese e dei lavoratori.
Un teorico del diritto del lavoro sostanziale, dove la bontà delle norme, e degli approcci giuridici che le ispirano, deve essere riscontrata dai risultati ottenuti nella loro applicazione, comparandoli con quelli ottenuti nell’ambito delle iniziative promosse per i medesimi scopi in altri contesti (aziendali, territoriali, sovranazionali). Un metodo (il benchmarking) finalizzato a verificare la qualità delle politiche e dei comportamenti degli attori istituzionali e sociali preposti a regolare i rapporti di lavoro e il mercato del lavoro e per impostare le riforme valorizzando le buone pratiche.
L’importanza di questo contributo di Marco Biagi deve essere ponderata nel contesto dell’evoluzione delle organizzazioni del lavoro degli anni ’90, della destrutturazione della matrice fordista della produzione in serie, della progressiva internazionalizzazione del sistema delle imprese, dell’impatto delle tecnologie sui profili professionali, della crescente mobilità del lavoro. Nell’ambito dei Paesi europei, sulla spinta di queste innovazioni e dei nuovi fabbisogni di flessibilità del sistema produttivo, si era messa in moto una stagione di riforme della regolazione dei rapporti di lavoro e del mercato del lavoro (flexsecurity) volte a potenziare gli interventi rivolti a migliorare le competenze dei lavoratori, a integrare i percorsi formativi con quelli lavorativi, a riformare l’intermediazione della domanda e offerta di lavoro e i regimi di monopolio del collocamento pubblico.
Con molto ritardo, e sulla spinta delle procedure di infrazione delle direttive europee, questa stagione venne avviata in Italia con le riforme del collocamento e dei rapporti di lavoro con finalità formativa che prendono il nome del ministro del Lavoro Treu, che per lo scopo si era avvalso del contributo del Prof. Marco Biagi. Sin dalle sue origini, il tentativo di riformare le politiche del lavoro italiane, in particolare il sistema dei rapporti di lavoro, ancorato sulla salvaguardia del posto di lavoro sul modello dei lavoratori dipendenti delle medio grandi aziende, si è scontrato con le resistenze ideologiche della sinistra politica e sindacale, prigioniera di una visione antagonistica delle relazioni tra il capitale e il lavoro. Ostilità che diventerà radicale nell’occasione della pubblicazione del Libro bianco sul mercato del lavoro italiano, redatto da un gruppo di esperti coordinato da Marco Biagi, che offriva una dettagliata lettura dei ritardi del nostro mercato del lavoro rappresentati dal basso tasso di occupazione, dalla scarsa dotazione di investimenti formativi e di strumenti di inserimento lavorativo qualificati, dalla marginalità delle politiche attive del lavoro rivolte ad aumentare l’occupabilità delle persone e di far incontrare in modo efficiente la domanda e l’offerta di lavoro, riducendo i tempi e i rischi delle transizioni lavorative.
L’orizzonte delle riforme del Libro bianco di Marco Biagi veniva individuato nella redazione di nuovo Statuto dei lavori finalizzato a offrire tutele alla complessità dei lavoratori dipendenti e autonomi, ispirato alle direttive europee per la parte dei diritti fondamentali inderogabili e dal rafforzamento del ruolo delle parti sociali per la regolazione dei rapporti di lavoro in relazione alla specificità delle organizzazioni produttive. Saranno proprio questi, in particolare la regolazione della flessibilità lavorativa, l’esigenza di rendere complementari le tutele del lavoro con quelle nel mercato del lavoro e l’importanza di valorizzare il ruolo del contributivo e partecipativo delle parti sociali, a marcare una stagione di contrapposizioni ostili ai percorsi delle riforme.
La lettura caricaturale delle sue idee da parte della sinistra politica, in particolare sulla riforma dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, contribuirà a far diventare Marco Biagi il bersaglio ideale dei suoi assassini. Ma alla tragedia umana è seguita quella politica, basata sulla contrapposizione sistematica e senza esclusione di colpi, ivi compresi i ricorsi alla Corte costituzionale da parte delle regioni governate dalla sinistra, alla legge di riforma che prende il nome del suo ispiratore, la 276/2003, frutto del lavoro coraggioso portato avanti dal ministro del Lavoro Maroni, e in particolare dal Sottosegretario Maurizio Sacconi e dal prof. Michele Tiraboschi, il principale collaboratore di Marco Biagi nell’ambito scientifico e universitario.
Le cronache degli ultimi venti anni sono contrassegnate da cicli di riforme e controriforme del lavoro, in particolare dei rapporti di lavoro a termine, e dalla completa incapacità di mettere in campo quelle politiche attive in grado di elevare la qualità delle risorse umane e di rendere efficiente l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Nonostante ciò, e nonostante l’impossibilità di offrire una traduzione coerente dei dispositivi normativi delle riforme per via dell’enorme peso delle competenze concorrenti tra Stato e Regioni sulla materia delle politiche del lavoro (previsto dalla riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2011), i numeri parlano chiaro. Il balzo nel tasso di occupazione e di partecipazione delle giovani generazioni nel mercato del lavoro nei 5 anni all’approvazione della Legge Biagi, non ha più trovato riscontri negli anni successivi caratterizzati dalle controriforme finalizzate a delimitare gli ambiti dei rapporti di lavoro flessibili. Arrivando persino ad abrogare, con qualche eccezione, la forma del contratto a progetto, un rapporto di lavoro finalizzata a rendere compatibili le tutele previste per i lavoratori subordinati con le prestazioni svolte in autonomia dai lavoratori e remunerate sulla base degli obiettivi e dei risultati.
Nell’ultimo decennio tutti gli indicatori quantitativi e qualitativi del nostro mercato del lavoro sono peggiorati, ivi compresi i tassi di incidenza dei contratti a termine, nonostante l’introduzione di vincoli per il loro utilizzo, di un’enorme mole di sgravi contributivi finalizzati a favorire le assunzioni a tempo indeterminato e di tre riforme degli ammortizzatori sociali che hanno fatto esplodere la spesa assistenziale. Ma soprattutto sono aumentate le distanze rispetto alle medie dei Paesi europei in termini di tassi di occupazione, in particolare dei giovani e delle donne, per gli indicatori relativi agli investimenti per la formazione delle risorse umane e dell’efficacia delle politiche attive del lavoro.
Nei mesi recenti la difficile reperibilità dei profili richiesti dalle imprese è arrivata al 38% sul totale dei fabbisogni, frutto della carente integrazione dei percorsi formativi con quelli lavorativi, della mancata accumulazione di esperienze lavorative che priva di ricambio generazionale gli artigiani e gli operai specializzati e, più in generale, della degenerazione del complesso dei valori che motivano la ricerca attiva del lavoro. Lo stato comatoso del nostro mercato del lavoro è manifesto nella combinazione tra la carenza delle professionalità che rappresentano la spina dorsale della gestione delle innovazioni produttive e della preoccupante sottoutilizzazione delle persone in età di lavoro, che non trova paragoni nei Paesi sviluppati. Resta il fatto che sono queste le condizioni, complicate dal progressivo invecchiamento della popolazione attiva, con le quali ci accingiamo ad affrontare una stagione di innovazioni tecnologiche e organizzative senza precedenti e destinata a sconvolgere gli equilibri del mercato del lavoro.
L’impatto delle tecnologie digitali era del tutto sconosciuto all’epoca della redazione del Libro bianco sul mercato del lavoro italiano, ma le intuizioni di Marco Biagi trovano un riscontro nei tempi odierni persino superiori rispetto al contesto che le ha originate.
Ma il pensiero unico che caratterizza le attuali politiche del lavoro in Italia ha rinunciato da tempo a comprendere le ragioni dei fallimenti delle nostre politiche del lavoro, ma li cavalca in modo paradossale per motivare l’introduzione di ulteriori vincoli per la gestione dei rapporti di lavoro e per ampliare gli ambiti di erogazione dei sostegni al reddito.
Consentitemi di chiudere il mio commento sull’opera di Marco Biagi e sull’attualità del suo pensiero, con qualche annotazione personale. Il mio incontro con Marco Biagi risale alla seconda parte degli anni ’90 in relazione al ruolo sindacale che svolgevo all’epoca delle riforme del pacchetto Treu, proseguito successivamente nel gruppo di lavoro che ha curato la redazione del Libro bianco sul mercato del lavoro italiano, nella veste di Amministratore delegato della nascente Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Italia lavoro s.p.a). L’incontro con Marco Biagi ha determinato un cambiamento profondo del mio modo di leggere e interpretare la complessità delle dinamiche del lavoro con un approccio sostanziale e privo di pregiudizi ideologici, che segnerà il prosieguo della mia vita professionale anche in altri ambiti.
La stagione dell’antagonismo di classe che ha seminato odio e sangue grazie, ringraziando Dio, è alle nostre spalle. Ma a distanza di 20 anni dalla pubblicazione del Libro Bianco di Marco Biagi, nonostante i conclamati fallimenti delle nostre politiche attive del lavoro, e l’abbondante disponibilità di informazione e analisi sul mercato del lavoro continuiamo a fare i conti con gli stessi pregiudizi dell’epoca. C’è qualcosa di profondamente malato nella nostra società, compresa l’abbondanza di cattivi maestri che ne giustificano i vizi.
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