Il presidente Usa e il presidente cinese sembrano principalmente preoccupati di regolare i conti fra le rispettive superpotenze, prendendo la crisi ucraina quasi a pretesto.
Ma lo stesso presidente ucraino – fissando la data del possibile cessate il fuoco a maggio – non pare avere come priorità assoluta la fine della bufera bellica che sta spazzando il suo Paese. E il suo stesso intervento al Bundestag ha avuto una fisionomia in parte inattesa: a quello che rimane il Paese-guida della Ue, Zelensky (israelita) non ha rivolto un appello pressante a favore di una tregua, ma evocato l’Olocausto e soprattutto l’accusa di consapevole “sottomissione” energetica alla Russia putiniana.
Lo stesso presidente francese Macron – a due settimane dal voto che lo vede ricandidato all’Eliseo – ha avvertito i francesi sui rischi di “una guerra ad alta intensità in Europa”: la crisi di Kiev lo ha in parte miracolato nei sondaggi e il ritorno del nucleare come arma e come fonte d’energia ha rilanciato Parigi, unica potenza europea a disporne.
La Crimea – territorio ucraino occupato dalla Russia già otto anni fa – sta tornando a essere hub simbolico di un grande “reset” geopolitico. Nel marzo del 1945 fu a Yalta che Roosevelt, Stalin e Churchill disegnarono l’ordine mondiale successivo alla “Seconda guerra dei trent’anni”. Quella mappa del pianeta sembrava essere finita nel cestino della storia nel 1989, sostituita dalla globalizzazione finanziaria e digitale, nella quale l’anglosfera è rimasta perno, per molti versi unipolare.
Unico reale sisma geopolitico – dal 1989 in poi – è stato alla fine il lungo sussulto islamico: dall’11 settembre all’Isis. Una parentesi ventennale non priva di crisi paragonabili a quella ucraina nelle due guerre del Golfo, ma apparentemente chiusa senza effettivi riequilibri strategici con il ritiro Usa dall’Afghanistan, mentre il negoziato nucleare con l’Iran sembrava vicino al traguardo.
Quasi a staffetta, è stata la Russia a riaccendere la guerra nelle stesse pianure di ottant’anni fa (fra il 1941 e il 1944 Karkhiv è stata persa e riconquistata due volte sia dall’Armata Rossa che dalla Wehrmacht). Ma Putin-land non è più l’Urss di Stalin, allora in ascesa sul piano geopolitico in diretta competizione “di civiltà” con l’America. Per certi versi la Russia di Putin è addirittura più arretrata (e l’invasione ucraina lo starebbe dimostrando). Il dittatore georgiano trasformò un impero arcaico e rurale in un gigante industriale governato da una pianificazione statale a suo modo innovativa, comunque vincente contro la Germania hitleriana.
L’odierna democratura putiniana – è stato detto – è invece ridotta a un’Arabia Saudita dotata di armi nucleari, un nano economico col Pil del Belgio, governato da una cerchia di oligarchi-satrapi non troppo dissimile dalla famiglia reale wahabita. Forse – si sta dicendo in questi giorni – il Cremlino si sta concedendo un “ultimo hurrà” storico, forse senza alternative pur in una visione spietata come si è definitivamente rivelata quella di Putin.
Per questo non può stupire che nel cantiere della Nuova Yalta – aperta dalla telefonata Biden-Xi Jinping – la Russia appaia già più oggetto che soggetto. Come interlocutore planetario di Washington è stata sostituita – da tempo – dal Dragone cinese, che nel 1945 era un player periferico, rappresentato da quel Chiang Kai-shek subito barricatosi a Formosa dopo la vittoria di Mao (e la Cina di Xi attende ancora di riannettere Taiwan come ha fatto con Hong Kong).
Al tavolo della nuova spartizione non c’è più neppure la Gran Bretagna (isolata dopo Brexit e compromessa con gli oligarchi putiniani). La foto sbiadita della prima Yalta è stata l’ultima dell’impero britannico “grande” del mondo. Quasi ottant’anni dopo, l’Europa – autodistruttasi fra il 1914 e il 1945, senza eccezioni fra “vincitori” e “vinti” – nel 2022 rimane fuori dalla porta del Grande Reset.
Era prevedibile, ma non scontato. Sta pesando anzitutto la debolezza tedesca nel delicatissimo trapasso dal lungo “regno” di Angela Merkel (e probabilmente non è stato casuale che Mosca abbia colpito ora). Ma la Francia macroniana non è più solida, anzitutto nel tessuto sociale; per non parlare dell’Italia. La tecnocrazia di Bruxelles è screditata e l’Unione stessa è in grave crisi istituzionale: l’autonoma missione a Kiev dei tre premier “slavi” con passaporto Ue ne è stata prova inequivocabile. E in prima linea, ai confini ucraini e bielorussi, c’è la Polonia, alleata di ferro degli Usa, forse per questo sempre più in attrito con la Ue, che è giunta alla minaccia di sanzioni contro Varsavia.
Al tavolo della Nuova Yalta è virtualmente seduto un Paese che nel 1945 non esisteva: Israele. Quando i tre Grandi decisero le “sfere d’influenza” a metà del secolo scorso, sei milioni di ebrei europei erano appena stati assassinati. I pochi superstiti fuggivano dall’Olocausto e dalla sua incancellabile memoria. Alcuni fra loro fondarono uno Stato-nazione nella “Terra dei Padri”. Altri ricostruirono l’ebraismo sulle millenarie tracce della diaspora. Oggi Israele ha ricomposto gli ingredienti vecchi e nuovi di una grande potenza: tecnologica, economico-finanziaria, militare, diplomatica, culturale. Non ha bisogno di estendersi sui sei fusi orari Usa o sui nove russi. Non sembra aver più bisogno di guerre convenzionali neppure con l’Iran. Tel Aviv è ormai una sintesi fra Silicon Valley e Wall Street. E Gerusalemme è al crocevia fra Washington, Mosca e Pechino, cerniera fra Nord e Sud, fra Africa, Europa e Asia.
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