La guerra russo-ucraina ha già stravolto l’Europa. I cambiamenti sono radicali.
Per la prima volta essa si riarma, aumentando la quota di Pil destinata alla spese militari. Per la prima volta fornisce armi a Paesi belligeranti impegnando proprie risorse “extra-budget”, aggirando con questo artifizio la norma del Trattato comunitario che lo proibisce. Oggi sono 21 Paesi su 27 a farlo; prima del 24 febbraio erano due.
Torna in auge la Nato. Che Macron dava per cerebralmente morta. La vecchia alleanza anti-sovietica torna ad essere convintamente apprezzata dai trenta paesi già membri ma un po’ demotivati, e fortemente ambita da Paesi prima neutrali, come Svezia e Finlandia, o neutralissimi come la Svizzera, e poi dalla Bosnia, dalla Georgia… L’Ucraina, non può più.
Le due rive dell’Atlantico, alquanto divaricate dalla politica di Trump, tornano a farsi più vicine. Anche per le sanzioni economiche contro l’aggressore russo, questa volta pesanti e impegnative (a differenza del 2014 quando Putin si prese la Crimea), che a Mosca costeranno, si calcola, un 10 per cento di Pil, ma costeranno anche dallo 0,5 al 2 per cento ai paesi europei. Mentre agli Usa (e alla Cina) niente.
Altri grandi cambiamenti riguardano l’atteggiamento verso l’inquinamento del pianeta: dalla preoccupazione per scongiurare il riscaldamento globale a quella per assicurare il riscaldamento domestico: ma sì, anche il carbone, pur di non avere i termosifoni spenti. Dico: non ci siamo sognati di morire per Danzica nel ’39, non è che adesso ci va di morire, di freddo!, per Greta Thunberg.
E infine, cambia l’atteggiamento verso i flussi migratori: dalla fregola di costruire barriere a una impressionante accoglienza. Forse una crepa da cui passi un po’ di luce?
Qualcuno si compiace perché “i Paesi europei si sono ricompattati” (con gli Usa). Sì, ma l’Europa sembra un gelato poltigliato. Non ha un ruolo autonomo rilevante né come potenza mondiale né come mediatore di possibili trattative per il cessate il fuoco, né come significativo protagonista di incontri, amicizie e dialogo fra popoli e nazioni. L’Europa appare in poltiglia avendo lasciato squagliare – in un lungo inesorabile processo – la sua vocazione costitutiva, e quindi la sua peculiare fisionomia. Che non le deriva dalla geografia (la quale non la distingue dal continente asiatico). E nemmeno dalla geo-politica, dal posizionamento nello scacchiere dei poteri mondiali. La scelta atlantica fu una necessaria, sacrosanta opzione dei padri fondatori della Comunità; ma essi non “sciolsero” affatto l’Europa nell’atlantismo, non la identificarono con un Occidente che affidasse totalmente al dominio capitalistico e alla potenza dell’apparato militare le sorti della libertà, della democrazia e della pace. Non si piccarono di “esportare” la democrazia: cercarono buone e costruttive relazioni per esempio con i paesi del Mediterraneo, a beneficio della pace e anche dell’approvvigionamento energetico. Per dire che non stiamo parlando del sesso degli angeli. E crearono un welfare che resta un unicum al mondo.
La caduta del comunismo e dell’impero sovietico (1989-1991) poteva favorire una nuova Europa che respirasse con due polmoni, come indicava papa Wojtyła. Un’Europa dei popoli e delle culture, custode dell’umano, in cui Est e Ovest si incontrassero, si conoscessero, si arricchissero imparando gli uni dagli altri. Autentici pionieri, come ad esempio padre Romano Scalfi di Russia Cristiana e don Francesco Ricci del Centro studi Europa orientale, avevano aperto operosamente questa strada già negli anni della cortina di ferro, dando voce e sostegno ai cristiani e agli uomini liberi perseguitati dai regimi comunisti. Senza scordare la straordinaria lezione di Solidarnosc, che mobilitò movimenti come Comunione e liberazione e sindacati come la Cisl.
Il seguito racconta un’altra storia. L’Europa spiritualmente e culturalmente scarica prese a seguire la pura (e a conti fatti) miope logica dell’ottimismo capitalistico globale: non l’incontro di popoli, non la valorizzazione delle esperienze di “vita nella verità” (Samizdat, dissenso russo, Havel, ecc.), non la cura delle esperienze di base per aiutare la nascita e il sostanziarsi di una vera democrazia, ma l’assorbimento nel mercato globale e i buoni affari. Così vecchi capi comunisti e nuovi mafiosi sono diventati padroni dispotici. L’Occidente, con il suo gaio nichilismo affarista, ci ha messo non poco del suo nel creare il Putin che ci troviamo contro. A una certa Europa non rimane che puntare tutto sul successo delle armi e delle sanzioni contro il mostro che ha contribuito a creare. E chi non salta, traditore pacifista è.
Ora percorrono l’Europa la paura e la pietas. La paura: che la guerra arrivi qui, che si usi l’atomica, che non si riesca a metterci una pezza. E la pietas: il moto di compassione e di condivisione per la povera gente straziata. Il desiderio di condividere. La disponibilità ad accogliere. Di ritrovare, in questo, il nostro umano, così spesso da noi stessi trascurato, immolato alle mode propinate dal potere.
Ecco, non fosse bastato lo schiaffone della pandemia a risvegliarci l’umano – l’ethos che questa Europa sembra poco interessata a custodire – adesso abbiamo una seconda occasione. Potrebbe essere, come gracchierebbe l’altoparlante del gate di un aeroporto, l’ultima chiamata. La paura ci ricorda che non siamo noi i padroni del mondo. La pietas che non ci salviamo da soli, ma con l’altro. Che se ci metti la A maiuscola, all’altro, è anche meglio detto.
È da augurarsi che tutto ciò non resti vibrazione momentanea, ma ci aiuti a cambiare davvero registro. Cominciando dalla nostra normale, consueta quotidiana fatica. Come? Come ha fatto, per esempio, Diana, rifugiata ucraina in Polonia: “La prima cosa che ho messo in valigia sono stati i documenti di scuola dei miei figli per garantire loro la possibilità di continuare gli studi”. Se vi sembra poco, vi sbagliate.
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