Il riconoscimento tardivo della posizione di Papa Francesco, in un primo momento silenziata per poi essere tardivamente accolta con evidente imbarazzo, è prova del clima di consenso “bulgaro” che sembra regnare sovrano in tutte le dichiarazioni pubbliche.
Il dibattito, vanto e onore delle nostre democrazie, non c’è. Basta osservare l’ordine con il quale le notizie vengono date ai diversi tg; dove le prime a comparire sono le posizioni pro intervento, immediatamente rinforzate dalle immagini della devastazione della guerra – come se in Siria o in Afghanistan non fosse accaduto altrettanto o ben di peggio – seguite da una lunga serie di conferme al riarmo e collocando le opinioni contrarie in fondo al palinsesto o non parlandone affatto. Più o meno come è accaduto pochi mesi fa con le perplessità nei confronti dei vaccini e dei rischi che in alcuni casi, per fortuna pochi, questi ingeneravano.
Se nel caso della pandemia la comunicazione a senso unico appariva motivata dal realismo dell’emergenza della campagna vaccinale, oggi quella relativa al conflitto russo-ucraino appare tanto più necessaria quanto più intensità e velocità dei meccanismi di contrasto richiedono costi rilevanti per le economie dei singoli Paesi, ma soprattutto hanno bisogno di un consenso totale nel quale i distinguo non sono tollerati.
Si ripete così lo scenario già emerso nel caso del regime delle chiusure e delle perplessità sul vaccino, conseguenti alla pandemia. Oggi come qualche mese fa conviene aderire senza dubbio alcuno, non indulgere nelle analisi, né nei tentativi di discussione. Esattamente come, nel caso del Covid, ogni tentativo di riflessione che non si manifestasse, fin dalle prime frasi, come una netta e totale dichiarazione di fedeltà alla scelta del governo veniva immediatamente banalizzato, ridicolizzato o silenziato, oggi, dinanzi alle immagini strazianti di Mariupol, qualsiasi distinguo è fatto passare per un sostegno diretto all’invasore, un pacifismo tanto ridicolo quanto irrealista.
In sociologia, dice Edgar Morin, prima di trovare le risposte adeguate è importante porre le domande giuste. E le domande giuste sono quelle che aiutano a comprendere quanto sta accadendo, senza che comprendere voglia dire scusare.
L’invasione dell’Ucraina, che la larga maggioranza di noi europei e i nostri stessi governi ritenevano assolutamente improbabile, ha dato ragione agli americani che, al contrario, l’avevano ritenuta estremamente plausibile.
La domanda è pertanto la seguente: se con la stessa lungimiranza con la quale gli esperti di Washington hanno visto il pericolo reale nelle esercitazioni militari dell’esercito russo a ridosso dei confini dell’Ucraina e, certamente, hanno osservato anche la strategia di Putin nel corso degli ultimi anni, perché, quando il monarca sovietico ha fatto risuonare i suoi tamburi di guerra reclamando le provincie russofone e denunciando la violazione degli accordi di Minsk, hanno scelto deliberatamente di lasciarlo correre per la sua discesa, attendendolo all’errore fatale che questi avrebbe deliberatamente e coscientemente commesso?
Poiché è impensabile che le varie think thank in opera presso i governi occidentali – e in particolare in quello statunitense – non avessero notato quanto accadeva nel Donbass dal 2014, resta in piedi la tesi che il lasciar correre sia stata una scelta consapevole, sottoscritta in piena lucidità e con chiara cognizione delle conseguenze.
Non c’è dubbio infatti che l’invasione dell’Ucraina abbia concesso agli Stati Uniti di Biden di riposizionarsi in un ruolo di prestigio e di centralità sul piano europeo, così come stia permettendo, ad un’Europa in profonda difficoltà, di recuperare identità di vedute e volontà di azione comune. Un prestigio ed un recupero tanto più necessari quanto più la rovinosa tragedia afghana, con l’abbandono alle vendette talebane di quanti avevano creduto in un’epoca nuova, ha profondamente compromesso la credibilità morale di quello stesso Occidente che oggi si fa araldo di principi e valori.
Ma non c’è nemmeno dubbio che l’invasione dell’Ucraina stia permettendo, tanto agli Stati Uniti quanto all’Europa, di reagire alla messa ai margini in atto che si è prodotta nei nuovi equilibri mondiali. In questi è infatti abbastanza semplice notare quanto l’Europa figuri sempre di più come una provincia esotica del nuovo ordine economico mondiale il cui baricentro si situa ad Est, tra i paesi Arabi e la Cina, passando attraverso l’India: l’altro silenzioso astenuto alla mozione di condanna della Russia da parte delle Nazioni Unite. Di fatto il conflitto russo-ucraino dà la possibilità di uscire fuori dal declino geo-politico, prima ancora che economico, nel quale Stati Uniti ed Europa sono inesorabilmente scivolati, ridimensionando il leader russo e recuperando così peso politico e autorevolezza morale, soprattutto dinanzi al concorrente cinese.
Ciò non toglie nulla alla condanna totale della Russia che si è resa responsabile dell’aggressione ad un Paese pacifico, ma consente anche di comprendere in modo adeguato la rete di strategie che si celano dietro i diversi protagonisti e che, proprio per questo, vanno risolte a tavolino più che al fronte, dove purtroppo il dolore è immenso e i morti sono reali.
Ignorare le poste in gioco, risolvendo tutto sotto il solo piano della condanna morale e dei tamburi di guerra, rischia di allontanare per mesi quella pace che è umanamente necessaria e prolungare una guerra della quale, a questo punto, chi ne ha tollerato le premesse porta con sé una responsabilità che, benché minore, non è certamente irrilevante. Se la Russia è il responsabile e l’Ucraina la vittima, ci sono infatti anche quanti hanno capito, previsto e lasciato correre, prevedendo uno scenario finale comunque vantaggioso.
A questo punto sedersi e trattare un nuovo riassetto dell’intera area non è più solo un’operazione di buon senso ma un dovere morale del quale portiamo tutti la responsabilità.
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