Due sentenze della Corte costituzionale sono cose che alla gente è meglio fargliele sapere, anche se i media non ci hanno pensato, presi da altro. Affermano, entrambe le sentenze, nella maniera più autorevole che il cosiddetto Terzo settore è protagonista decisivo dell’azione per il bene del Paese. Relatore di entrambe il giudice Luca Antonini. Una, di poco più di un anno fa (n. 131/2020), sancisce lo stesso principio pronunciandosi su un quesito riguardante le cooperative di comunità. L’altra, recentissima (n. 72/2022, depositata qualche giorno fa), sancisce lo stesso principio pronunciandosi in merito a un quesito sul finanziamento a enti di volontariato per l’acquisto di ambulanze. L’ha dettagliatamente illustrata Luca Gori su ilsussidiario.net del 22 marzo.
In sostanza la suprema Corte, presieduta da Marta Cartabia al tempo della prima sentenza, da Giuliano Amato nella seconda, afferma – Carta costituzionale alla mano – che Paese come Dio comanda, quale l’Italia deve e vuole essere, cammina su tre gambe, non su due. Le due gambe che abbiano in mente e cui pensiamo normalmente di affidarci sono lo Stato e il mercato. L’altra gamba che, sbagliando, dimentichiamo o sottovalutiamo, è la comunità. Che poi, alla fine della fiera, saremmo noi, quando ci alziamo dal divano, ci mettiamo insieme con altri e ci diamo da fare per rispondere a dei bisogni comuni.
L’insieme delle forme organizzative che nascono dal basso viene appunto chiamato, come si sa, terzo settore. E svolge una funzione ineliminabile. Magari non ci rendiamo neanche conto, ma ha dimensioni ragguardevolissime: 360mila enti con 860mila dipendenti, secondo i dati del 2019, in crescita di quasi il 20% sul 2011. Mobilita circa 80 miliardi all’anno, ed è la quarta economia italiana, coprendo il 5% del Pil. Save the Children è in testa alla classifica italiana delle associazioni del terzo settore con un bilancio di 123 milioni; nel gruppo di testa troviamo tra gli altri, per fare i nomi più noti, Medici senza frontiere (70 milioni), Avsi (68), Emergency (48). Più di cinque milioni gli italiani che fanno a vario titolo volontariato.
Ciò per dire che non si tratta di bruscoline.
Lo sanno bene gli enti pubblici, i comuni, le assistenti sociali, che quando non sanno più come arrivarci chiamano in soccorso le truppe ausiliarie di questa brava gente. Le amministrazioni locali pullulano di consulte sociali et similia: quando non è una perdita di tempo il parteciparvi, si tratta magari di utili occasioni di dialogo, di coordinamento (se si riesce), di ascolto da parte della pubblica amministrazione (se non ha troppo cerume nelle orecchie). Questo non tragga in inganno: è un modello vecchio come il cucco, in cui alla fine l’ente pubblico monitora il bisogno e pianifica fin dove ci arriva e, finché c’è qualche soldo, il volontariato fa.
La Corte costituzionale apre uno scenario culturalmente e operativamente rivoluzionario. Il rapporto non è più decisore-esecutore, ma di partnership. Gli enti del terzo settore non sono semplici fornitori di servizi (meno costosi di quelli forniti dal profit), ma collaboratori della pubblica amministrazione nella risposta ai bisogni sociali – assistenziali, culturali, sportivi – attivi nella fasi di co-programmazione degli interventi e di co-progettazione e realizzazione, anche attraverso opportune forme di accreditamento.
È evidente che qui la Costituzione viene richiamata non come retorica di sacri principi posti come scontata e ininfluente premessa, un po’ come si faceva con il sermocino dell’assistente spirituale in apertura dei congressi delle associazioni cattoliche. La solidarietà, nella nostra Carta, sta già incisa nell’articolo 2 sin dalla sua data di nascita, 1° gennaio 1948, la sussidiarietà – la parola che qualifica ciò di cui stiamo parlando – è esplicitata all’articolo 117 del testo riformato nel 2001. Si sa che non basta scrivere. Occorre farne criterio operativo. La Corte costituzionale spinge su questa strada.
La quale da subito può introdurre grandi cambiamenti operativi, che suppongono una nuova e diversa mentalità. Per esempio, come sottolinea Giuliano Amato in un podcast rintracciabile sul sito della Corte costituzionale, in non pochi casi e con le giuste garanzie di trasparenza e di imparzialità, si può scegliere un percorso diverso dalla classica gara, che tante volte, da strumento, è diventato un totem, dietro cui ogni scelta, anche non la migliore rispetto alla realtà, è giustificata e protetta solamente e interamente dalle regole procedurali e dai controlli. Sempre Amato fa notare che una pubblica amministrazione ridotta a questo patisce un distacco dalla realtà e, aggiungo di mio, scade nel burocratismo.
E c’è un’osservazione anche più generale da fare. È opinione abbastanza diffusa che le democrazie sono in una fase di stanchezza se non di crisi. Non principalmente per meccanismi istituzionali da aggiornare e perfezionare, ma per la distanza crescente tra popolo e politica, cui peraltro corrisponde una pericolosa tendenza ad affidarsi al potere e a sperare nell’uomo forte di turno. Se non si valorizza e si incentiva – direzione in cui vanno le sentenze della Consulta – l’iniziativa dal basso e la partecipazione attiva comunitaria, resta solo l’illusione, o meglio la grande presa per i fondelli, che uno vale uno (sulla piattaforma autorizzata, beninteso), che è come dire uno vale zero. Zero virgola, toh, per essere larghi di manica.
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