Massimo D’Alema ha già ammesso l’errore di aver dato credito a persone che lo hanno trascinato in una vicenda dai contorni poco chiari. Ma non basta. Doveva informarsi per tempo su chi stava per incontrare e comunque doveva rifiutare di occuparsi di armi, avrebbe probabilmente evitato questa ennesima figuraccia.
La storia in cui è rimasto invischiato ancora non è stata chiarita in tutti i suoi aspetti, ma in sintesi può essere riassunta così: un imprenditore pugliese, già conosciuto in passato, chiede un incontro al presidente della Fondazione Italianieuropei per esporgli l’opportunità, a suo dire, di intermediare una grossa commessa da parte della Columbia per Leonardo. Si tratta dell’acquisto di armi, aerei, tecnologia militare italiana.
In generale D’Alema avrebbe dovuto sapere – essendo stato presidente del Consiglio – che le armi sono acquistate dagli Stati e le intermediazioni non sono ammesse, almeno quelle legali. D’Alema invece fiuta l’affare è si lascia inorgoglire dalla possibilità di dimostrare ancora quanto sia influente. Come ha dichiarato egli stesso in un’intervista a Repubblica, sperava di ritagliare per alcune aziende da lui assistite “eventuali ricadute positive in termini di fatturato”. Aspirazione legittima? Fino ad un certo punto. Infatti l’indagine interna avviata dai vertici di Leonardo è giunta rapidamente alla decisione di rimuovere Giuseppe Giordo, il direttore generale dell’azienda, il referente interno che aveva tenuto i contatti con l’ex deputato di Gallipoli.
All’origine dello scandalo c’è l’intercettazione di un’animata telefonata tra i mediatori colombiani, uno studio legale americano con base a Miami, e il gruppo di lobbisti italiani. Nella registrazione si sente chiaramente D’Alema fare riferimento ad un “success fee” di 80 milioni di euro che si sarebbe maturato al buon esito dell’operazione e che non c’era tanto da discutere e litigare sui dettagli. Insomma D’Alema cercava di rassicurare i suoi interlocutori sull’esito dell’operazione e sulla necessità di non creare problemi di sorta alla controparte italiana.
La pubblicazione della registrazione ha avuto l’effetto che evidentemente sperava chi l’ha diffusa. L’appalto è sfumato, i vertici di Leonardo hanno preso le distanze dalla vicenda, e la magistratura ha già aperto un’indagine per accertare se sono stati commessi reati, a cominciare dall’ormai famigerato “traffico d’influenza”, rischio da cui non sembra esente l’ex premier.
A prescindere dalla vicenda giudiziaria, l’accaduto ha lasciato increduli molti estimatori dell’ex uomo politico, leader indiscusso negli anni 90 della sinistra italiana. D’Alema ha cercato di difendere il suo operato riconducendo la vicenda ad un’attività di consulenza alle imprese che lui svolge ormai regolarmente, tramite una sua società e attraverso alcuni incarichi di rilievo come quello di presidente dell’advisory board di Ernest&Young, una delle ”Big Four” della consulenza mondiale. Quello che fa storcere il naso a molti è il rifiuto sdegnato di D’Alema di chiamare con il vero nome il suo lavoro: egli è ormai un lobbista, lavoro degno e utilissimo, che egli svolge ovviamente dall’alto del suo cospicuo sistema relazionale sia in Italia che nel mondo.
Quello che D’Alema deve accettare sono le regole che un lobbista deve seguire con attenzione quando tutela gli interessi di parte. Il suo passato glorioso non lo esenta dal rispettare tutti i regolamenti e le procedure di cui la pubblica amministrazione si è dotata per tenere a bada i “portatori d’interessi”.
Ci sono molti ex politici che hanno intrapreso quest’attività dopo aver lasciato ogni ruolo politico. In generale questa scelta, per quanto comprensibile e legittima, genera però sempre qualche problema. In primo luogo alla parte politica fino a poco tempo prima rappresentata ai massimi livelli. Basta citare ad esempio i danni causati alla Spd da Gerhard Schröder diventato lobbista di Gazprom, o al ruolo assunto da Tony Blair in tanti affari che coinvolgono l’alta finanza – e non solo – del mondo arabo. Quello che sorprende invece è l’approssimazione con cui D’Alema e il suo entourage si sono mossi in questa vicenda. La figuraccia è stata quella di comportarsi alla stregua dell’ennesimo venditore della Fontana di Trevi. Imperdonabile.
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