Il mese scorso Glenn Loury, un economista statunitense che, a 32 anni, è stato il primo professore afroamericano ad avere una cattedra di economia ad Harvard, ha chiesto a Charles L. Glenn, suo collega negli anni Ottanta alla Boston University, noto anche in Italia per le sue posizioni di difesa della scelta famigliare, di spiegare come mai da strenuo difensore dei diritti dei neri, che si batteva in prima linea per la giustizia sociale, soprattutto in educazione, pur avendo continuato il suo impegno aveva cambiato idea sul modo migliore per raggiungere l’obiettivo. Questa la risposta del professor Glenn, che mi pare possa offrire più di uno spunto interessante per l’Italia (Luisa Ribolzi).
Non sono cambiato io, ma la giustizia sociale
Sono cresciuto negli anni Sessanta insieme all’interesse per la giustizia sociale. Nel 1963, ero al Lincoln Memorial mentre Martin Luther King teneva il suo discorso su un futuro dell’America senza divisioni razziali. Qualche mese dopo, ero in prigione nel North Carolina come membro del Freedom Movement. Nel 1965, il New York Times Magazine usava una mia foto durante le marce a Selma, in Alabama, per illustrare un articolo sul “clero radicale”, e facevo parte della “prima ondata” di antirazzismo, che lottava contro la segregazione legale.
Dal 1970 al 1991, con un dottorato ad Harvard di politiche educative, ho lavorato al ministero dell’Educazione del Massachusetts, e ho presieduto un nuovo ufficio per l’uguaglianza delle opportunità educative, responsabile tra le altre riforme di portare avanti il processo di de-segregazione nelle scuole pubbliche di Boston. L’ho fatto con tanto impegno che nel 1974 ero conosciuto come “Mister Busing”, perché gli scuolabus andavano in giro per implementare il mio progetto di desegregazione. I media di tutto il paese venivano a Boston per riferire della rabbia degli adulti bianchi per l’intrusione dei ragazzi neri nelle “loro” scuole superiori, e il Boston Globe mi chiamò “il parafulmine dello stato per le tempestose proteste contro la legge che si oppone allo squilibrio razziale e contro i progetti per le scuole di Boston e Springfield”, e Anthony Lucas, in Common Ground, mi descriveva come dotato di uno “zelo appassionato per le questioni razziali”.
Oggi, cinquant’anni dopo, i sostenitori delle politiche progressiste mi considerano un conservatore, perché sostengo tutte le forme di scelta famigliare: scuole charter, buoni scuola, scuola domestica (homeschooling). Sono stato chiamato come esperto in molte cause che si opponevano alla limitazione di fondi pubblici per le scuole di ispirazione religiosa. Sono anche critico verso molto di quello che è stato fatto o proposto in nome della giustizia razziale, e verso l’attuale ossessione per le identità, razziali e non.
Che cosa è successo? È un’altra prova della giustezza della battuta del poeta Robert Frost, “non ho mai osato essere progressista da giovane per paura che questo mi avrebbe reso conservatore da vecchio”? Ho abbandonato le mie convinzioni e sono diventato tollerante verso le ingiustizie? No di certo: ritengo di avere verso questi problemi la stessa passione di sempre, ma ho imparato dall’esperienza e dai miei stessi errori a cercare rimedi più efficaci. Nella nostra ricerca di giustizia negli anni Settanta in una cosa avevamo ragione, e in una torto, ma la cosa paradossale è che sia quello che continuo a pensare sia le opinioni che ho cambiato mi hanno messo in radicale conflitto con le correnti ortodosse sulla “giustizia sociale”.
In che cosa avevo ragione
La cosa principale in cui avevamo ragione è il pensare che l’integrazione razziale e fra le classi sociali può essere un’ottima cosa, sia per cosa e come i bambini imparano, sia per la qualità dell’istruzione fornita ai bambini poveri. Ma non si realizza per magia, e se viene fatta male peggiora le cose. Noi abbiamo trovato che per il successo dell’integrazione erano essenziali due cose: ampie possibilità per i ragazzi di lavorare insieme in progetti comuni e un clima di reciproco rispetto.
Lo scopo di creare contesti in cui studenti bianchi potessero lavorare con studenti neri o di altri gruppi minoritari (ispanici o asiatici) era di incoraggiarli a concentrarsi sul compito comune piuttosto che sulle differenze etniche e razziali. Gli sforzi comuni generavano rispetto, fiducia e talvolta anche amicizia. Questo è l’opposto di quella che viene chiamata “terza ondata di antirazzismo”, la nuova ortodossia dei circoli progressisti che “insegna che poiché il razzismo è connaturato alla società, la ‘complicità’ dei bianchi che vivono al suo interno è da considerare di per sé razzismo, mentre per i neri, fare i conti con il razzismo che li circonda costituisce un’esperienza totalizzante”.
L’applicazione di questa ideologia divisiva nelle scuole comporta l’acutizzarsi dell’autocoscienza razziale in molti modi, grandi e piccoli, e convince alcuni bambini che sono inevitabilmente vittime, e altri che sono inevitabilmente oppressori colpevoli. L’attenzione non è più su progetti condivisi, ma su rancori divisivi. Io continuo a pensare che facevamo bene a incoraggiare gli studenti a lavorare insieme in modi che rendevano i loro obiettivi comuni più importanti delle differenze etniche o razziali, e le facevano passare in secondo piano rispetto a nuove amicizie.
In che cosa mi sbagliavo
Quarant’anni fa, però, mi sono convinto che sbagliavamo in un’altra cosa: pensavo che i genitori potessero essere trascurati, e i bambini fossero semplicemente un oggetto e uno strumento delle politiche pubbliche. Esaminando i casi di successo (per esempio le scuole-magnete liberamente scelte) e quello che invece andava male (l’assegnazione obbligatoria basata sulla residenza) ho visto che un efficace tentativo di realizzare la giustizia non può sacrificare la libertà, ma deve far collaborare i diversi diritti.
Questo mi è venuto in mente nel mezzo delle nostre battaglie per la desegregazione, quando ho scritto nel mio diario “Fiat justitia ruat cælum” (“sia fatta giustizia, anche se cadono i cieli”), e poi mi sono chiesto: ma se cadono i cieli, se tutto il sistema crolla, che giustizia si realizzerà fra le rovine? E ho cominciato a cercare modi per accrescere le opportunità per gli studenti immigrati e delle minoranze, o provenienti da famiglie emarginate, che potessero potenziare le famiglie invece di estendere semplicemente i poteri dello stato. I miei anni come pastore nei ghetti urbani mi avevano convinto che i genitori poveri ci tenevano molto ai loro figli, ma spesso non si sentivano in grado di prendere delle decisioni sul loro futuro. La scelta della scuola era un modo per accrescere il loro senso di responsabilità e di fiducia.
Questo mi ha spinto a diventare un accanito sostenitore della scelta famigliare della scuola, e della possibilità per gli educatori di creare scuole con un progetto formativo preciso, che desse un senso alla scelta. Inizialmente, questa si limitava alle scuole presenti in uno stesso distretto, e quando nel 1991 ho lasciato il governo per andare a insegnare alla Boston University, in Massachusetts, la scelta era attiva in 18 città. Ma io fui anche fra i primi sostenitori di un sistema di scuole charter pubbliche indipendenti dal sistema.
Nel frattempo, avevo conseguito un secondo dottorato sotto la supervisione del sociologo Peter Berger, con una tesi che è poi diventata il mio primo libro, Il mito della scuola comune (1988). Questo studio storico del ruolo dello stato nella scuola pubblica in Francia, Olanda e America mi ha portato ad una posizione pluralistica ancora più radicale. Dopo decenni di lotta sull’orientamento religioso delle scuole, gli olandesi hanno deciso di dare a tutte le scuole, statali e non, lo stesso finanziamento pubblico. Come risultato, ci furono molte decine di modelli educativi alternativi, e ben poco di quel conflitto sulla scuola che è così comune negli Stati Uniti. Allora ho incominciato a sostenere i buoni scuola, il credito di imposta, e ogni altro strumento per dare un sostegno pubblico alle famiglie a basso reddito per fare scelte fondamentali per l’educazione dei propri figli. E sono anche arrivato a sostenere l’homeschooling.
Non sono diventato un libertario. Come dico ai miei amici, io sono un calvinista. Io credo che l’uomo sia fallibile, e perciò sono convinto della necessità di un continuo controllo dello stato per garantire che ogni bambino riceva un’istruzione adeguata. Ma questo ruolo dello stato deve concentrarsi sui risultati misurabili in un numero limitato di aree di istruzione. Non deve assolutamente occuparsi di come questi risultati vengono ottenuti, e soprattutto non deve estendersi ad un controllo sull’intero contenuto dell’educazione fornita dalle scuole.
Con un collega belga, ho curato tre edizioni di un libro in quattro volumi, Balancing Freedom, Autonomy, and Accountability in Education, che esamina più di sessanta sistemi scolastici nazionali, per capire in che misura i genitori sono liberi di scegliere la scuola, e gli educatori di creare scuole con un orientamento educativo specifico (all’interno delle regole fissate dallo stato) per ottenere risultati soddisfacenti. Il paradosso è che questo focus sul potenziamento dei genitori, specialmente i più poveri, nel prendere decisioni sull’educazione dei loro figli, con adeguate garanzie, ha finito con l’essere visto nei circoli “illuminati” come reazionario. Molti proclamano che per la “giustizia sociale” è necessario che lo stato promuova l’autonomia dei bambini limitando radicalmente l’influenza delle loro famiglie e comunità di appartenenza.
Quelli che – come me – cinquant’anni fa sostenevano che per ottenere la giustizia lo stato doveva frapporre la sua autorità fra i genitori e i loro figli, si sbagliavano, e chi promuove ancora oggi questo tipo di politiche si sbaglia. Penso di aver imparato qualcosa dagli errori e dai successi di questi cinquant’anni, e vedo con molta tristezza l’entusiasmo con cui vengono abbandonate le conquiste e abbracciati gli errori.
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