Il 2 aprile di 40 anni fa ebbe inizio, con l’occupazione di Port Stanley da parte delle truppe argentine, la guerra con la Gran Bretagna che dal 1833 occupava le Isole Falkland/ Malvinas. Come già abbiamo descritto in un’altra nota editata per risaltare le coincidenze di questo conflitto con l’attuale in Ucraina, la guerra venne decisa dalla giunta militare che governava l’Argentina con il fine di alimentare un patriottismo che da lungo tempo è presente nel Paese che, a scapito di soli 8 anni di occupazione delle isole (1825-1833), ne rivendica ancor oggi la sovranità perché geologicamente “attaccate” al proprio territorio. Ma il conflitto era stato architettato per coprire la grave crisi che da tempo aveva rotto gli equilibri all’interno della dittatura.
Per un po’ il Presidente argentino, il Generale Gualtieri, pensò di averla fatta franca, visto che nemmeno lontanamente si immaginava che un arcipelago a più di 20.000 km dalla Gran Bretagna avrebbe attirato una reazione inglese. Invece, proprio come la Russia con la grande resistenza ucraina che ha di fatto rotto il “giocattolo” della guerra lampo immaginata da Putin, così il Primo ministro inglese Margaret Thatcher inviò un nutrito contingente a riconquistare i territori.
La guerra si sviluppò ovviamente con grandi incursioni aeree e un’aspra battaglia tra i Sea Harrier inglesi e i Mirage argentini, questi ultimi dotati dei temibili missili Exocet, che affondarono diverse navi britanniche.
La riconquista inglese partì dalle Isole della Georgia Australe il 21 aprile e, nel giro di due mesi, il 20 giugno le truppe argentine si arresero e dopo 74 giorni terminò la guerra, che ebbe come bilancio di vittime 255 militari inglesi, 649 militari argentini e 3 civili.
C’è però un argomento che viene affrontato molto poco nell’analisi di questo conflitto: riguarda le sue conseguenze nell’esercito argentino. Gualtieri, nella sua convinzione di una facile vittoria, aveva formato un contingente totalmente inadatto ad affrontare il conflitto, con tantissime reclute molto giovani, inesperte e inoltre in gran parte inadatte ad affrontare la situazione climatica, vista la provenienza di molti soldati da zone torride del Paese. A questo bisogna aggiungere la poca preparazione e il fatto di scontrarsi con un esercito inglese composto da professionisti della guerra, tra i quali il temibile reparto dei “gurkha” di origine nepalese, truppe di assalto con un dna guerriero di secoli.
A questo proposito Carlos, un argentino che ha combattuto nelle trincee scavate per contrastare l’invasione Inglese, mi racconta ancor oggi tremando la sua esperienza.
“Venni mandato nella notte dai miei compagni a scaldare l’acqua per farci un mate (la classica bevanda argentina di origine gauchesca, ndr). Cosa che feci inoltrandomi in un corridoio distante pochi metri dalla linea. Quando tornai reggendo la pava (la teiera con l’acqua calda, ndr) e il mate mi si gelò il sangue: tutti i miei compagni erano morti ed ero l’unico sopravvissuto. Non mi ero accorto di nulla, dato che il silenzio era stato totale. Capii che la manovra era opera dei Gurkha e che mi ero salvato grazie al mate. Lo shock fu ed è tremendo, perché da allora non riesco più a dormire di notte: difatti lavoro come guardiano notturno in un garage”.
E qui tocchiamo un altro tasto dolente: a parte l’alto numero di vittime, i “muchachos” argentini dovettero affrontare non solo bruttissime esperienze psicologiche e psichiatriche dovute al conflitto, ma anche un’ostilità inspiegabile una volta tornati in patria. Dove la giunta militare si era squagliata e la democrazia era finalmente tornata a far risplendere la propria luce dopo il buio della dittatura. Il processo agli alti comandi militari per l’ignobile vicenda dei “desaparecidos” ebbe un effetto tremendamente negativo su coloro che in un primo momento erano stati acclamati dall’intero popolo argentino come degli eroi. Si trovarono improvvisamente ignorati totalmente dalla gente e soprattutto dalle istituzioni che non prestarono nessun soccorso e nemmeno riconoscimento per quello che avevano fatto. Per la stupida ragione che i reduci della guerra erano visti come collaborazionisti della dittatura genocida: un’insulsaggine che purtroppo continua al giorno d’oggi a oscurare non solo la vita di persone che hanno avuto “la colpa” di difendere la propria patria, ma anche una distorsione “mediatica” di quegli anni ’70 che pare non aver fine.
Carlos Gerardo Carbajo (qui in basso in una foto d’epoca) in quella guerra era sottufficiale meccanico aeronautico dell’aviazione navale dell’esercito argentino, occupandosi dei velivoli Aermacchi 326 e 339.
“Quello che posso dirle è che quella data ci ha segnato profondamente e per noi ha significato il passaggio improvviso da ragazzi a uomini e non credo ci sia molto da aggiungere, perché le guerre non sono benvenute da nessuno, anche se a 19 anni si ha tutto l’impeto di affrontare le cose in un modo diverso, principalmente quando uno fa un giuramento”.
E aggiunge: “Nella mia esperienza della guerra delle Malvinas non ero distaccato nelle isole, ma operavo nel territorio nazionale argentino, dalla località di Punta Indio fino alla città di Rio Grande in Patagonia, con tutta l’incertezza che ti può dare una guerra, visto che fino a quel momento non l’avevamo mai vissuta. È stato molto duro e difficile affrontare tutto questo sia prima che dopo la fine delle ostilità: per fortuna oggi sto bene, ma molti dei miei compagni commilitoni continuano a soffrire e molti altri, idealmente, continuano a presidiare le Isole, visto che hanno perso le loro vite nel conflitto. Il mio pensiero al giorno d’oggi rimane lo stesso, perché ripeto: ho fatto un giuramento di difendere la nostra bandiera fino a rimetterci la vita e tornerei a farlo ora. E mi duole tantissimo che di noi ex combattenti ne parli quasi esclusivamente la stampa straniera”.
Dimenticati in patria, quindi: questo è un altro tragico effetto che le guerre provocano da sempre.
Vincitori sono tutti, ma perdenti solo pochi e invisibili nella società.
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