A cinque settimane dall’inizio della guerra russo-ucraina, in trincea si ritrovano (anche) i Presidenti di due grandi democrazie occidentali: entrambi su fronti interni. Emmanuel Macron, in Francia, è in volata finale per le presidenziali (primo turno domenica prossima). Oltre Atlantico, Joe Biden traguarda già il voto midterm di novembre: il giro di boa del suo mandato alla Casa Bianca.
Quando Vladimir Putin ha lanciato la sua “operazione militare speciale”, Macron si è speso in un frenetico attivismo politico-diplomatico (è giunto a telefonare al Cremlino anche due volte nella stessa giornata). Nessun osservatore ha mai accreditato di chance minime i suoi assoli, benché finalizzati a prevenire lo showdown o a farlo cessare al più presto. Un largo consenso ha invece guardato all’appuntamento-Eliseo: l’effetto-guerra è parso subito offrire al Presidente uscente un importante puntello esterno, potenzialmente decisivo al termine di cinque anni accidentati.
Molto sembrava – e sembra tuttora – giocare dal teatro ucraino a favore della rielezione di Macron:la classica opzione generale per la stabilità interna sollecitata da una grave crisi esterna; il rafforzamento relativo di Parigi in Europa di fronte all’improvvisa debolezza tedesca (e anche all’appannamento della stella italiana di Mario Draghi); la stessa carta nucleare (civile e militare) che la Francia – unica nell’Ue – possiede e dice da tempo di voler rilanciare in Europa. Un passo – quello dell'”atomo verde” – che Macron ha compiuto già prima che la crisi russo-ucraina impattasse in modo drammatico sui vitali circuiti energetici del Vecchio continente. L’Eliseo ha colto così al balzo l’opportunità elettorale di superare la grave impasse interna imposta dai gilet gialli: che hanno protestato a lungo per la manovra fiscale volta a favorire la svolta energetica verde contro i carburanti fossili.
In questo quadro Macron rimane oggi in testa ai sondaggi, ma la sua vittoria-bis non è ancora data per scontata. Anzi: il suo margine su Marine Le Pen si è ridotto nell’ultima settimana a 6 punti (27 – in leggero calo – contro 21 per la leader del Front National). I polls dicono però anche che in un testa a testa al secondo turno Macron s’imporrebbe 55 a 45 contro la probabile contendente. Ed è vero soprattutto che nel 2017 il leader di En Marche! – praticamente al suo esordio elettorale – s’impose su Le Pen 24 a 21 al primo turno e 66 a 34 al ballottaggio. La questione sembra quindi essere non tanto se Macron sarà o no rieletto, ma come. E non sembra questione di poco conto: il Front National, tra l’latro, è da sempre vociferato di sostegni sotterranei da parte di Mosca, mentre Eric Zemmour – candidato dell’estrema destra sovranista – è ancora accreditato di una quota elettorale superiore al 10 per cento.
Il tema che si era già posto cinque anni fa si è comunque rivelato critico alla prova dei fatti. Il Presidente “senza partito” eletto da un quarto dei francesi si è ritrovato spesso a governare contro i tre quarti che non lo hanno votato, sebbene ormai privi delle storiche bussole partitiche d’Oltralpe (dall’Rpr gollista di Giscard, Chirac e Sarkozy al Ps di Mitterrand e Hollande). Ora Macron chiede la conferma dopo cinque anni di sostanziali insuccessi nello sviluppare un’agenda indefinitamente “centrista/modernizzante”.
Il primo traguardo mancato – anche per l’emergenza Covid – è stata la riforma della governance Ue sul terreno economico finanziario, proposta anche come cantiere per la costruzione di una difesa europea. Il punto strategico resta però intatto: sembra, anzi, divenuto prioritario, mentre la freddezza tedesca e l’anti-europeismo dei due Governi Conte a Roma si stanno rivelando miopi e sorpassati, quando non addirittura sospetti.
La dimensione più densa di incognite – che le urne democratiche sono chiamate per definizione a chiarire – resta comunque quella più profondamente sociopolitica: come la pensano gli elettori francesi – sulla base delle miscele di valori e interessi in gioco – sulla drammatica svolta ucraina? Non è un caso che Macron – pur occidentalista convinto – abbia fin da subito lavorato per una de-escalation immediata in Ucraina: utile anzitutto a stemperare le esplosive minacce russe sul fronte delle forniture energetiche e dell’inflazione. Il Presidente francese è stato poi il solo leader occidentale a prendere formalmente le distanze dall’escalation verbale di Biden contro Putin “criminale di guerra” e “macellaio”. Su questo sfondo il voto francese sembra proporsi come benchmark cruciale e valevole per tutt’Europa: dove è già evidente – nella Germania che ha appena votato come nell’Italia che si accinge a votare fra un anno – la presenza di una “maggioranza silenziosa”. Che certamente condanna (e teme) l’aggressione russa ed è solidale con Kiev; ma mantiene come preoccupazione prioritaria la faticosissima uscita socio-economica dall’emergenza Covid, ora resa più incerta dalla crisi nell’Est europeo.
“È in gioco il futuro della democrazia” ripete Biden sull’altra sponda euratlantica: al fine principale di sostenere una strategia contro-aggressiva a tutto campo da parte dell'”Occidente unito” contro il “paria Putin” (perfino il Presidente ucraino Zelensky si è dovuto riaccodare nelle ultime ore a Washington, affermando che l’unica opzione per il suo Paese è “la vittoria totale” sulla Russia). Se tuttavia l’atteggiamento di Biden solleva perplessità crescenti nelle democrazie europee (cui infatti il presidente cinese Xi ha rinfacciato l’eccessivo appiattimento sull’intransigenza Usa), anche nella democrazia statunitense il momento del Presidente non appare maggioritario. Appena tre giorni fa un sondaggio della Nbc gli ha assegnato una popolarità non superiore al 40%, ai minimi: con uno iato evidente rispetto al massiccio appoggio assicuratogli da media tradizionali come New York Times o Washington Post di fronte all’emergenza geopolitica.
Per gli americani – anche per loro – la crisi russo-ucraina è naturalmente rilevante (benché nettamente meno che per gli europei). Ma la crociata contro Putin non è certamente la priorità: così come non lo era la permanenza in Afghanistan a fini di export di democrazia e “nation building”. In cima ai pensieri di tutti gli elettori d’Oltre Oceano rimane invece la recovery post-Covid: che lo stesso Biden – nella campagna elettorale 2020 – aveva immaginato come una grande fase di ricomposizione complessiva degli equilibri socioeconomici dell’America dopo la parentesi “medioevale” della presidenza Trump. Ora invece una larga fascia di americani a basso reddito – non ancora beneficiati da un promesso aumento per legge del salario minimo oppure dai piani di spesa pubblica impantanati al Congresso – non riesce più a pagare le bollette di luce e gas. Nel frattempo la business community di fede repubblicana o democratica centrista osserva alla finestra una Casa Bianca che ha cominciato a litigare con la Cina e ancora medita di alzare le tasse su imprese, alti redditi e patrimoni per soddisfare l’ala radicale dei dem. La crociata interna contro i monopoli Big Tech, intanto, tende fatalmente a impantanarsi nell’emergenza “patriottica” di combattere la “guerra delle fake news”, mentre già sul pianeta tutti temono il pericolo di una “cyberguerra” almeno quanto quella di un conflitto nucleare tattico.
Tra sette mesi, nel classico primo martedì di novembre, l’America sarà chiamata a rinnovare l’intera Camera dei Rappresentanti, un terzo del Senato e una quarantina di governatori. Nella House neppure una maggioranza nominale 221 a 209 ha finora garantito a Biden un’accettabile sviluppo della sua agenda. Se i dem perdessero anche questa posizione, la presidenza autoproclamatasi “restaurativa della democrazia in America” sarebbe compromessa e lo stesso Biden potrebbe essere in definitiva difficoltà a ricandidarsi nel 2024. Non può stupire, quindi, che all’enfasi valoriale (“obamiana”) di Biden sul fronte ucraino stia corrispondendo un impegno quasi nullo verso lo spegnimento effettivo del falò bellico: acceso dalla Russia, non immediatamente pericoloso per gli Usa, comunque controllabile da Washington da dietro le quinte. Meglio lasciare che Putin – vero o presunto sodale di Trump – continui a riempire i media internazionali con fotomontaggi hitleriani alternati a orrori umanitari purtroppo reali. E l’Europa – per usare un’espressione cara a Ronald Reagan – “è ormai grande abbastanza per cominciare a badare a se stessa”. Ciò che la Casa Bianca non può assolutamente permettersi è un nuovo passo falso come la cattiva gestione del disimpegno da Kabul: nominalmente ideale (chiudere una fase neo-imperialista dell’America), sostanzialmente dettato da realpolitik, anche al prezzo di lasciare le donne afghane alla mercé dei talebani.
“È in gioco il futuro della democrazia”: l’anziano presidente dem può non avere tutti i torti, a patto però di specificare che per un inquilino della Casa Bianca la democrazia ha sempre il format implicito di quella americana, codificata nel 1835 dal francese Alexis de Tocqueville. Quella americana è la democrazia reale, da sempre la più importante sul pianeta a essere e potersi dire tale. E forse non è fuori luogo rammentare che da entrambe le guerre mondiali del ventesimo secolo la democrazia americana si tenne inizialmente fuori.
Il presidente Woodrow Wilson (dem) mantenne per ben tre anni la neutralità Usa rispetto alla guerra scoppiata in Europa nel 1914. Solo dopo la rielezione del 1916 affiancò – in modo decisivo – Francia, Gran Bretagna e Italia contro gli Imperi centrali: anche per compensare la sostanziale resa della Russia zarista, sotto la pressione della rivoluzione leninista. Fu così che il neutralista Wilson si trasformò nel “primus” fra i leader delle potenze vincitrici al tavolo di Versailles: da cui uscì una “pace sbagliata” ma non per colpa sua (i suoi famosi “Quattordici Punti” erano in larga parte corretti e vennero largamente disattesi). È a Versailles nel 1919, comunque, che inizia “il secolo americano”.
Il successore quasi diretto di Wilson – Franklin Delano Roosevelt, dem eletto nel 1932 – era ancora assorbito dal New Deal anti-Depressione quando in Europa i cannoni ripresero a tuonare nel 1939. Ancora una volta gli Usa si guardarono bene dall’immischiarsi e solo quando nel 1940 Hitler attaccò la Gran Bretagna l’Amministrazione Roosevelt s’impegnò sul piano finanziario a favore della “difesa della democrazia” proclamata da Winston Churchill a Londra. Questo non impedì tuttavia a FDR di promettere ai suoi elettori – chiedendo nel novembre 1940 un terzo mandato senza precedenti – di tenere l’America fuori dalla nuova guerra europea. Mantenne l’impegno quando nel giugno 1941 Hitler attaccò l’Urss. Non ebbe invece esitazioni di fronte al “giorno dell’infamia”: l’attacco giapponese a Pearl Harbour nel dicembre 1941. Ma, per l’appunto, fu costretto a portare gli Usa in guerra da una terribile incursione militare sul territorio nazionale. Dall’Asia, non dall’Europa.
Già allora lo scacchiere sino-giapponese del Pacifico stava diventando di primo livello – sul piano geopolitico – per la democrazia americana. E non sembra un dettaglio ricordare che Italia e Germania dichiararono subito guerra agli Usa a fianco del Giappone subito a fine 1941. Non fu subito così, viceversa, da parte di Washington. E il primo scontro ingaggiato dalle forze armate americane contro quelle nazifasciste non ebbe luogo prima del febbraio 1943: in Africa, dopo il “patto di Casablanca”, più di mille giorni dopo l’inizio della guerra. FDR attraversò per la prima volta l’Atlantico per formalizzare l’alleanza con Churchill contro Hitler e Mussolini. Stalin non riuscì o non volle esserci (era in corso la battaglia di Stalingrado), ma sapeva già che gli alleati dell’Occidente “democratico” gli avrebbero offerto gli aiuti militari indispensabili per rovesciare le sorti del conflitto: principalmente sulle pianure ucraine, fra il 1943 e il 44. Tanto che l’ultima – fondamentale – conferenza fra i Tre Grandi si tenne a Yalta, in Crimea, nel gennaio 1945.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.