Dopo settimane di mediazioni, e anche di strappi specie sul tema del catasto, il Mef ha messo a punto un pacchetto di emendamenti alla riforma fiscale 2022 che la commissione Finanze della Camera ha iniziato a esaminare, con l’obiettivo (non facile visto che la maggioranza appare ancora divisa) di far approdare il testo in Aula subito dopo Pasqua.
Tra le novità della riforma fiscale 2022, il ritorno del cashback, ma solo per le spese detraibili, con un accredito diretto sul conto corrente bancario al posto del recupero in sede di dichiarazione dei redditi, l’idea di rivedere l’aliquota minima sul risparmio (portandola al 15%), la conferma dell’abolizione graduale dell’Irap, il mantenimento della flat tax per le partite Iva con ricavi fino a 65.000 euro, con un regime agevolato transitorio nei due anni successivi al superamento di tale soglia.
Secondo Massimo D’Antoni, professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena, «il giudizio sugli emendamenti non può non partire da un giudizio sulla riforma fiscale 2022. Come mi è capitato di dire in più occasioni, si tratta di interventi complessivamente modesti, che affrontano solo marginalmente le criticità di un impianto fiscale ormai invecchiato e stravolto da una stratificazione di interventi senza una visione di insieme. Purtroppo, si è persa un’occasione. Gli emendamenti sono modifiche al margine su un intervento al margine. Si tratta di mettere d’accordo forze politiche che hanno idee molto diverse sul da farsi, dunque una mediazione al ribasso».
Si era discusso molto, alla fine dello scorso anno, degli effetti delle modifiche alle aliquote Irpef. Pensa che ora ci sarà, a parte il capitolo catasto, un altro punto divisivo nella riforma fiscale 2022?
Se ben capisco si conferma nella riforma fiscale 2022 il mantenimento dei regimi sostitutivi, come il regime forfetario, la cosiddetta flat tax, per imprese e autonomi con ricavi entro i 65.000 euro. In questo confermando che nei fatti l’Irpef non è più un’imposta sul reddito complessivo, bensì un’imposta che grava quasi solo sul lavoro dipendente. Un’altra idea era quella di uniformare il trattamento di tutti i redditi di capitale, allineando il trattamento del capitale finanziario anche con quello immobiliare. Vedo che si parla di convergere intanto verso due aliquote, del 15% e del 26%. Nel caso, sarebbero penalizzati i cespiti patrimoniali il cui rendimento è oggi tassato con aliquote inferiori, quali i titoli di stato (ora tassati al 12,5%) e le locazioni che godono dell’aliquota agevolata al 10%. Non mi è chiarissimo quali redditi sarebbero assoggettati a quali aliquote e un altro punto cruciale è se le nuove aliquote si applicherebbero ai soli titoli di nuova emissione (di solito è così) o a tutti quanti, nel quale caso l’aumento determinerebbe un prelievo straordinario sui titoli in essere.
Parliamo invece della riforma del catasto. Sembra che per superare le divisioni degli ultimi mesi nel testo possa esserci un esplicito riferimento al fatto che le nuove rendite, anche dopo il 2026, non dovranno essere utilizzate per aumentare le tasse. Può rappresentare, a suo avviso, la giusta quadra?
Non mi è chiaro se la contrarietà della Lega, che vede nella riforma fiscale dei valori catastali l’intento di aumentare le imposte, sia stata superata. Sul piano logico le due cose, l’aumento dei valori e quello delle imposte, non vanno necessariamente insieme, perché si potrebbe prevedere una contestuale riduzione delle aliquote in modo da garantire l’eguaglianza di gettito per lo meno in media. Non solo si potrebbe, ma si dovrebbe, perché una revisione degli estimi è questione di equità orizzontale tra contribuenti che hanno immobili di valore simile e pagano imposta molto differenti, ma d’altra parte le nostre imposte immobiliari, pur con l’esenzione dell’abitazione di residenza, sono già piuttosto elevate. Naturalmente la credibilità a lungo termine di questi impegni è sempre relativa.
Tra gli emendamenti ve n’è uno che intende fare in modo che le risorse recuperate dall’eventuale revisione delle tax expenditures venga finalizzata alla riduzione dell’Irpef, a partire dai redditi medio-bassi. Da un lato ciò vuol dire che c’è il timore che si voglia “far cassa” tagliando le spese fiscali, dall’altro che è probabile una ridistribuzione del carico fiscale, non a una sua riduzione “tout court”…
Sì, in questo caso sarebbe una redistribuzione. Del resto la riduzione c’è stata con la riforma delle aliquote. Non sono del tutto d’accordo con questo intervento, le tax expenditures in molti casi hanno una logica, quella di incoraggiare certe spese o compensare i contribuenti per averle sostenute, a parità di reddito con quelli che non hanno dovuto sostenerle.
Tra le altre cose si vuole introdurre nella riforma fiscale 2022 una “clausola anti-ricari” con lo scopo di evitare che i decreti attuativi portino a un aumento della pressione fiscale rispetto a quella derivante dalle regole attuali. Obiettivo buono solo sulla carta o effettivamente raggiungibile?
È quello che dicevo prima, clausole del genere sono strumenti per rendere credibili gli impegni tra le forze politiche, anche in vista di possibili cambi di maggioranza futuri. Il problema è che una clausola firmata oggi può essere modificata domani da una nuova maggioranza. Di solito l’occasione non manca, ci sono sempre emergenze non previste che giustificano politicamente una revisione degli impegni. Abbiamo appena vissuto quella della pandemia, ora c’è la guerra…
Che dire invece delle misure per contrastare l’evasione: sarà la volta buona?
La strategia del Governo da qualche tempo è la tracciabilità attraverso incentivi all’uso della moneta elettronica. Ovvio che più tracciabilità significa più possibilità di controllo, con effetti specialmente su certi tipi di evasione, quella “spicciola” nei piccoli esercizi commerciali. Se mi sta chiedendo se questo possa eliminare il problema dell’evasione, direi che mi pare difficile. Ci sono anche le grandi frodi fiscali.
Pensando al fatto che si parla anche di ritorno del cashback, questa volta legato alle spese detraibili, misura cara a M5s, non c’è il rischio di creare una riforma che cerchi di accontentare tutti i partiti di una vasta maggioranza senza che vi sia un vero disegno complessivo del sistema fiscale?
Questo stop and go sul tema del cashback, introdotto poi abolito in corsa e ora nuovamente introdotto, non favorisce la credibilità. Ho anche paura che la presenza di requisiti stringenti sulle modalità di pagamento che danno diritto alla detrazione spinga molti a lasciar perdere, con l’effetto paradossale di incentivare forme di pagamento informale.
Una considerazione finale sulla riforma fiscale 2022: questa riforma fiscale è in grado di affrontare gli effetti della fiammata inflazionistica che sta erodendo il potere d’acquisto degli italiani? Non si potrebbe valutare di mettere mano all’Iva e/o alle accise in maniera strutturale?
Il sistema fiscale non è uno strumento idoneo a combattere l’inflazione, se non per insiemi circoscritti di beni e periodi limitati. Per questo, ha senso la riduzione temporanea delle imposte sul carburante, ma una soluzione del genere non può diventare strutturale, a meno di rinunciare alla funzione delle imposte, che è quella di ottenere gettito e in alcuni casi (come quello citato) di far internalizzare ai consumatori gli effetti negativi di quella scelta di consumo sulla collettività. Semmai, persistendo l’inflazione, bisogna pensare a evitare fenomeni di fiscal drag, un problema che anni di bassa inflazione ci aveva fatto dimenticare.
Vogliamo ricordare ai nostri lettori di che si tratta?
Molte imposte hanno valori (esempio soglie e limiti di esenzione, ma l’esempio più ovvio sono i limiti degli scaglioni dell’imposta progressiva) definiti in termini nominali. In presenza di inflazione, se tali valori non sono aggiornati, si determina un aumento del carico fiscale a parità di reddito reale, cioè di reddito rapportato al potere d’acquisto. Tra l’altro tende a colpire maggiormente i redditi più bassi. Il fenomeno del fiscal drag contribuì a determinare un forte aumento della pressione fiscale nei primi anni Ottanta. I Governi non sono incentivati a neutralizzarlo perché l’aumento delle imposte che ne deriva è automatico e non immediatamente visibile, dunque politicamente poco costoso.
(Lorenzo Torrisi)
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