L’invasione dell’Ucraina significa l’apertura imprevista e drammatica del vaso di Pandora. Il massacro di Bucha ha fatto il giro del mondo, destando raccapriccio. Ha scritto Lyudmila Ulickaja: “io, e parlo a nome di molti altri concittadini come me di idee del tutto opposte, provo vergogna per le azioni intraprese dal mio paese”. Una guerra convenzionale con molte vittime civili e catastrofi umanitarie che rischia di diventare molto più grave ed estesa, con un cambiamento dell’ordine internazionale, a detta del politologo Karaganov. La presenza di centrali nucleari, il coinvolgimento di potenze militari e alleanze crea timori. Crescono i rischi a tutti i livelli e aumenta la sofferenza della popolazione ucraina, prigioniera di una situazione terribile, ormai da troppi giorni. Ci si chiede con disilluso dolore, se il grave conflitto potrà essere raffreddato oppure no.
Destano, poi, inquietudine le parole di Francesca Giovannini dell’Università di Harvard, esperta di questioni nucleari, relative al collasso degli ordini di deterrenza nucleare e alla constatazione amara che non vi sono istituzioni internazionali in grado di portare a un dialogo tra paesi. A tal proposito, il filosofo francese Jean-Pierre Dupuy, studioso di teoria delle catastrofi, autore del libro La Guerre qui ne peut pas avoir lieu. Essai de métaphysique nucléaire (Desclée de Brouwer, 2019) ha rilasciato un’intervista interessante al mensile Philosophie Magazine in cui sostiene che, oggi, la scelta è tra la vita e il nulla, e l’apocalisse è un destino contro il quale bisogna lottare. E d’altro canto Benoît Pelopidas, ricercatore di Sciences Po, sostiene che la comunità epistemica militare internazionale stia vivendo a proposito del nucleare un’intrinseca contraddizione, che consiste in “una scommessa sulla vulnerabilità come condizione di sicurezza”.
Si registra ancora l’escalation di minacce e affermazioni forti che fanno affidamento sullo status di potenza nucleare. Strategie per intimorire o realtà probabili? Ma cosa vuol dire in definitiva tale status? Un potere di alta e totale distruttività che sperimenta a sua volta la possibilità di essere distrutto. Detto altrimenti, lo status di potenza nucleare, in ultima analisi, è il potere di annichilire, ma anche quello di essere annichiliti. Insomma, il potere finale su cui ci si basa per intimorire è un nulla. Si è in cima alla gerarchia delle nazioni del mondo solo per poter dire “tu sei nulla, io sono nulla”. Non si è superpotenze culturali, umanitarie, cooperative, scientifiche, ma potenze del nulla. L’affermazione del nichilismo come impossibilità a essere umani pienamente, insomma. L’esperienza dello scacco in cui si imbatte ogni volontà di potenza, dunque: anche la nostra. Il massimo potere, perciò, è la verifica dell’impotenza totale, in cui il sogno delle élites che pensano di dominare i popoli svanisce nella crudezza della sua verità ultima.
Il punto di partenza censurato e dimenticato, in questo sparire nel nulla, è il peccato originale e la sua valenza in politica. La dimenticanza della nostra vulnerabilità strutturale e il bisogno di una terapia forte e adeguata hanno prodotto il collasso sotto gli occhi di tutti. E la comune presunzione della salvezza politica e teologica. Un vero e proprio peccato contro lo Spirito. Da un lato “andrà tutto bene”, “fai la cosa giusta”, frasi dell’ottimismo sociale da film americano con happy end incluso e festa con musichette. Dall’altro la decisa affermazione del mužik, del vero uomo russo, che afferma nel 2018 che in caso di guerra nucleare “noi saremo tutti martiri, loro però non avranno il tempo di pentirsi”.
Insomma, la vittoria è irreale: aver sparato il primo colpo, prima di aver prodotto la rovina di un popolo e degli altri popoli. Ma le frasi che mascherano il significato ultimo del potere non hanno una tenuta. E nulla possono di fronte all’icona del Giudizio divino di scuola ucraina del XVI secolo inviata da una studiosa russa ai suoi amici dopo il massacro di Bucha. O alla struggente melodia giapponese Le campane di Nagasaki, in cui si sente ancora la voce delle vittime innocenti e si ascolta vibrare la testimonianza di Takashi Paolo Nagai. Ogni potere, insomma, non è un Minotauro capace di divorare nel buio la storia e i popoli. È sottoposto, infatti, alla legge del tempo: finisce e deve fare i conti non solo nella storia, ma anche oltre la storia. La nostra vita, infatti, non finisce nella pattumiera dell’oblio o nel “sacco buio” di tolstojana memoria. E allora, se dovessero partire ordini mortali con strumenti di massacri, viene da dire: “non prema quel bottone soldato Ivan!”.
Nel testo di Tolstoj Ivan lo scemo il protagonista, infatti, non sceglie come i suoi fratelli il Potere (economico, militare), ma la vita. Dall’altra parte non c’è un fantasma creato dall’ideologia imperialista, ma lo sguardo di un innocente, “com’è stato lei da bambino, soldato Ivan”. L’obiezione di coscienza all’ingiustizia definitiva del nichilismo estremo, perciò, non è una viltà, non è pseudopacifismo, non è irenismo, ma realismo. La compagnia è lunga: Desmond Doss, Franz Jägerstätter, Dietrich Bonhoeffer, Max Josef Metzger, i numerosi tolstojani, i soldati della piccola tregua di Natale del 1914, ecc. A proposito, già che ci siamo, “soldato John evitiamo il first strike”.
In molti ci ricordiamo il “non abbiate paura” di San Giovanni Paolo II, ma soprattutto per la sua seconda parte. È per quella seconda parte e per quel Nome che non abbiamo paura. E proprio con questa memoria viva, per noi e per tutti, ci soffermiamo a contemplare, nel bel testo di Suor Maria Donadeo, Icone mariane russe (Morcelliana 1988), proprio l’immagine dell’Icona della Madre di Dio “Ricerca dei perduti”, che si trova a Mosca – non a caso – nella Chiesa della Risurrezione detta Slovuscij in via Neždannaja.
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