La cifra del momento politico è riassunta nelle parole del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli. In veste di pompiere su una situazione incandescente, il braccio destro di Draghi si incarica non solo di rassicurare Salvini che il governo è pronto a nuovi interventi per calmierare il prezzo della benzina. Si incarica soprattutto di ammonire sul rischio che la crisi in atto faccia deragliare il paese dall’obiettivo del rilancio attraverso il Pnrr.
La crisi è la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, che ha avuto fra i suoi tanti effetti collaterali quello di imporre un freno a conflittualità latenti fra i partiti che sostengono l’esecutivo. Parliamoci chiaro: senza la guerra e la necessità di stare uniti, le ragioni di bottega dentro la maggioranza sarebbero esplose con virulenza molto maggiore di quanto non stia accadendo.
Il fatto è che in questo secondo tempo del governo Draghi non siamo più di fronte a scelte emergenziali (legate alla pandemia, o al via libera europeo al complesso del Pnrr). Si va a incidere sulla carne viva dei partiti, si toccano temi che identificano l’identità di ciascuno, come si vede nei due fronti più caldi, la riforma della giustizia e la delega fiscale. Cartabia e Franco sono impegnati in una mediazione snervante, che vede il centrodestra sulla difensiva su entrambi i fronti. Sembra più vicina un’intesa sul nuovo sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura che non sul fisco. Ma Salvini continua a frenare, e sulla questione delle tasse si trova spalleggiato in pieno da Berlusconi.
A soffiare sul fuoco è soprattutto il Pd targato Letta. Il leader dem lamenta che non può essere solo il suo partito a prendere schiaffi. In troppi, accusa, annusano le elezioni con eccessivo anticipo. Una certa narrazione riconducibile al Nazareno da giorni sta spargendo sui giornali l’idea che il governo possa fare a meno della Lega. Salvini tiene il punto sui contenuti e dice di augurarsi che il governo arrivi sino al 2023, ma ha chiesto l’intervento di Draghi, e pure quello di Mattarella.
Il timore è che Palazzo Chigi ceda alle pressioni di marca dem e su giustizia e fisco decida di ricorrere al voto di fiducia, mettendo il Carroccio con le spalle al muro. Decisivo sarà il faccia a faccia fra Draghi e Salvini, previsto a inizio settimana, con un punto fermo: né il premier, né il Capo dello Stato oggi vedono di buon occhio un’uscita della Lega dal governo. Loro intento è prolungare il più possibile il governo dì unità nazionale, sino alle elezioni del marzo prossimo. E la guerra in Ucraina rappresenta una ragione assai seria per prolungare questa faticosa esperienza di convivenza nella maggioranza.
Se i leghisti traslocassero all’opposizione, del resto, la coalizione di governo avrebbe un disperato bisogno di Berlusconi. Altrimenti si ridurrebbe a una riedizione del governo giallorosso, con Renzi di nuovo titolare della golden share dell’esecutivo, come fu con Conte. Uno scenario inaccettabile per Draghi. Per di più Berlusconi, tornato sabato ai comizi pubblici dopo due anni e mezzo, non ha fatto sconti all’ala governista del suo partito (Brunetta, Carfagna e Gelmini): ha detto che la sua Forza Italia rimane saldamente nel centrodestra, e saldamente contrasta ogni ipotesi di aumento delle tasse. Al fianco di Salvini, insomma, non con il Pd, perché divorziare dal centrodestra significherebbe per gli azzurri un bagno di sangue in termine di consensi.
A meno di imprevedibili colpi di scena, quindi, la maggioranza Ursula rimane consegnata al libro dei sogni del Pd, e a Letta non rimane che cercare di consolidare il rapporto con l’evanescente M5s di Conte.
L’impressione è che le fibrillazioni siano destinate a durare a lungo, con Draghi costretto a mediare su ogni dossier. A palazzo Chigi non fanno i salti di gioia, ma sono rassegnati a questo. Anche perché se la Lega, con tre ministri e sette sottosegretari, uscisse dal governo, sarebbe ineludibile l’apertura di una formale crisi di governo. E in Italia le crisi di governo si sa come cominciano, non come finiscono. Invece del Draghi bis, senza Salvini, si rischia di rotolare in maniera pericolosa verso elezioni anticipate che nessuno davvero oggi vuole. Nessuno, salvo forse Giorgia Meloni.
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