Qualche giorno fa ho partecipato a un incontro con alcuni amici. Uno di loro ha posto una questione cruciale, che in questa Settimana Santa mi sembra decisiva: in che modo – concretamente, ossia non in un impeto di visionarietà – un’esperienza di bellezza che io faccio qui e ora mi rimanda a Gesù Cristo? Cosa mi permette (se me lo permette) di compiere questo passo?
Durante la discussione che ne è seguita è stata usata molto la parola “gratuità”, come se fosse qualcosa di così evidente da non richiedere di far luce. Invece, secondo me bisogna ogni tanto domandarsi se quando usiamo questa parola – come del resto tante altre – descriviamo un’esperienza concreta che facciamo o se è solo un modo di dire, magari pieno di partecipazione emotiva buona, ma senza esperienza.
La bellezza ha segnato la mia vita in modo particolare, si può dire fin da quando ero bambino. Un mio prozio è stato un grande pittore, poi ho seguito Giovanni Testori, diventando suo allievo. Non so come mai (forse sono matto) fin da ragazzino pensavo che se non fossi riuscito in qualcosa di artistico sarei stato un perfetto fallito.
L’idea del fallimento mi ha sempre perseguitato. Al fondo di me, mi sono sempre sentito niente, anche se mi davo un sacco di arie. L’incontro col Movimento di Cl è stato l’incontro con qualcuno che aveva pietà del mio niente, e per questo non me ne andrò mai. Questo non vuol dire che in ogni momento io faccia esperienza di questo abbraccio, anzi, alle volte mi sembra di vedere il contrario: alla retorica dell’amicizia non ci credo tanto, gli amici non sono il volto di Cristo, è la memoria di quello che mi lega a loro a tenermi desto. La memoria è determinante affinché l’Avvenimento riaccada per me. Accade ora perché è accaduto. Noi infatti diciamo che ri-accade.
Non voglio fare della teoria, voglio solo descrivere bene l’esperienza che faccio.
Questo c’entra con la questione della bellezza. Nel mio piccolo, tutte le volte che riesco a fare qualcosa di bello mi domando: come ho fatto a farlo? Perfino Michelangelo, il più grande artista di tutti i tempi (e anche il più pieno di sé, almeno fino a un certo punto della sua vita), prova scandalo davanti all’esito della propria opera, e vuole distruggere il Mosè. Pensava: questa statua l’ho fatta io, ma la grazia che si porta dentro resta un mistero che io non possiedo. E così si incazza. La parola “grazia” richiama l’idea di gratuità. Ma una gratuità senza dono è terribile (non a caso usiamo la parola “gratuito” anche in senso negativo, per esempio, quando diciamo: “questo è un giudizio gratuito”).
Mi viene in mente il film Mulholland drive di David Lynch, quando uno dei personaggi (che rappresenta forse satana), ascoltando della musica diffusa da un grammofono, dice ridendo: “Si sente la musica, ma nessuno la sta suonando”. La bellezza senza dono sta in bilico tra il tutto e il niente. Provo a immaginare se la donna più bella del mondo si innamorasse di me e volesse portarmi via da mia moglie e dalla mia famiglia. Come sarebbe difficile resistere a un fascino così prepotente!
Ecco perché prima di dire che la Bellezza salverà il mondo ce ne vuole! E comunque non ci si arriva da soli.
Ma il diavolo usa, è vero, tutti gli strumenti di Dio, compresa la bellezza: però non capisce niente di Dio. Lo diceva sempre Giacomo Contri: quando il serpente dice ad Adamo ed Eva “sarete come Dio”, l’immagine di Dio che ha in testa è quella di un contabile, di un ragioniere, uno che rubrica il bene da una parte e il male dall’altra, e così via. È, in altre parole, il grande tema del Potere. Dominare, controllare.
Le parole di don Giussani sulla misericordia spazzano via completamente questa cosa. Perché la bellezza senza Qualcuno che ce la dona è sopportabile solo se non ci pensiamo (la “riduzione estetica” di cui parla Il senso religioso è una rinuncia all’intelligenza, ed è una tentazione costante), altrimenti è una porta sull’assurdità dell’esistenza – che è un esito non da poco della grande letteratura del Novecento. Quando Montale, in Forse un mattino andando rivede gli alberi e le case “per l’inganno consueto”, dopo averne scoperto la vanità, vede questa assurdità: il mondo è bello, e non è opera di Dio ma nemmeno dell’uomo, è nulla.
Questo non porta automaticamente a rispondere alla domanda da cui eravamo partiti. Però è vero che noi occidentali – figli volenti o nolenti della civiltà cristiana – guardiamo alla bellezza (una montagna, un tramonto, un bambino, un’opera d’arte) in modo diverso rispetto, che so, a un cinese. Siamo infinitamente più commossi, anche senza essere migliori di loro. Come mai?
Pietro Citati ricorda che gli artisti occidentali hanno imparato a dipingere la bellezza dipingendo la vita di Gesù: nascita, maternità di Maria, fuga in Egitto, Gesù tra i dottori, il bacio di Giuda, la flagellazione, la deposizione, la resurrezione, ma soprattutto la crocifissione. Sono i soggetti principali di tutta la storia dell’arte, di tutta l’educazione alla bellezza della nostra civiltà.
In altre parole, la nostra fortuna immensa è un cammino educativo lungo 2000 anni in cui la Grazia di Cristo viene prima di tutto. E “grazia”, ossia gratuità, dono, è la parola più adeguata a esprimere l’esperienza di una cosa bella. I pittori hanno imparato a usare il rosso per poter dipingere il sangue di Gesù!
In altre parole, c’è sempre “qualcosa che viene prima”: il nesso tra questa cosa bella e Cristo è reso possibile dal fatto che l’esperienza della bellezza ci è stata trasmessa in modo adeguato proprio dal cristianesimo, e le parole con cui la descriviamo adeguatamente vengono dal cristianesimo, anche se non ci crediamo. Se passare da un’esperienza bella a Gesù Cristo è possibile, lo è – credo – perché Gesù Cristo viene prima e non dopo. È un’intuizione, un gemito, qualche volta un urlo, niente di così esplicito (tranne forse in Dante). Non un passaggio automatico.
Ma io amo la letteratura e l’arte perché negli esiti più alti (pensiamo anche solo a Grossman) arriva, sia pure confusamente, a questa intuizione: che noi non ci possiamo accontentare della bellezza senza giungere a quello scrigno in cui essa si rivela come Bene. E si rivela come Bene all’uomo comune solo se si è rivelato come un bene “per me”, solo se è diventato esperienza di qualcuno che poi ha fatto arrivare a me questa esperienza: l’uomo Gesù di Nazareth.
So che anche questa non è una risposta alla grande domanda, ma forse è l’ambito (se non altro storico, visto che Dio è entrato nella storia) in cui si possono collocare sia quella domanda, sia forse anche la risposta, che è comunque personale: è di tutti perché è personale, perché a rispondere può essere solo una persona.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.