Sono rimasto molto colpito dall’articolo di Mario Ballantini sull’affetto gratuito. Richiama una cosa semplice, una di quelle che più si tende a dimenticare: è l’amore che muove il cuore delle persone. Sentirsi investiti di uno sguardo gratuito, che dice “tu sei importante per me” cambia, anche radicalmente. E non solo i giovani, naturalmente, anche se il loro “nichilismo” che tanto ci preoccupa oggi certamente ne rappresenta la sfida principale.
Mi sono poi chiesto: come si rende evidente questa gratuità, questo interesse, questo amore allà’altro? La domanda può sembrare scontata, ma non lo è, se la si declina nell’ambito in cui opero, ovvero la psicoterapia. Gli psicologi vengono formati ad essere gentili, accomodanti, supportivi verso i pazienti. Pensiamo a quanto è diffuso il pensiero di Carl Rogers, uno dei padri (controversi) della psicoterapia contemporanea, secondo cui il professionista deve dotarsi di una “accettazione incondizionata” come “modo di essere” verso il paziente.
È certamente una cosa buona, ma diventa col tempo un atteggiamento, un modo di fare, una routine. Ovvero: rischia di avere la forma della carità e dell’interesse, ma senza la sostanza. Specialmente quando lo si fa per l’utilità che produce più che per il bene che apporta: a volte le due dimensioni non coincidono. Si potrebbe anche dire che diventa un modo politically correct, in cui s’infila l’opposto della gratuità, cioè il disinteresse o la disaffezione, magari anche la disistima e la rabbia.
Mettiamoci nei panni di un paziente: come fa a scorgere quel di più che è segno della presenza di Qualcun Altro se tutto ne è una umana imitazione? È un po’ come individuare l’unico prodotto di qualità in una pasticceria piena di dolci: un’impresa difficile, che richiede una familiarità con i “prodotti” che (forse) il setting di uno psicologo impedisce di conoscere a dovere.
Ad aiutarmi in queste riflessioni mi è venuta in soccorso una signora che, qualche tempo fa, parlando, tra una frase e l’altra intercalò questa curiosa affermazione relativa al suo terapeuta: “Mi aiuta quando mi dice la sua”. Anche qui, sembra di raccontare l’ovvio. Ma, ripetiamolo ancora, non è poi così ovvio nel mondo della psicoterapia. Non è per niente scontato che il professionista ti dica la sua. Specialmente da quando non esiste più la verità e il multiverso (lo si chiamava: relativismo) ha preso il sopravvento sul bene e sul male. Lo diciamo ancora ai giovani che le canne fanno male? Che la pornografia ostacola l’amore? Che il sabato sera in discoteca non equivale quasi mai a divertirsi?
Giudicare, diciamocelo sinceramente, è diventata un’operazione coraggiosa. Con l’accettazione incondizionata negli occhi e il relativismo nel cervello, va a finire che il terapeuta valorizza tutto ciò che si trova davanti, senza neppure intuire che è invece una grande grazia incontrare qualcuno che ti propone un giudizio di valore. La tradizione parla di “correzione fraterna” e, guarda un po’, per san Tommaso d’Aquino costituisce uno degli atti esterni della carità. Ovvero: amare qualcuno significa anche dirgli ciò che si pensa. Non sarà utile, magari lo disporrà emotivamente, ma sarà un bene.
Certamente, nell’ambito della psicoterapia, questo giudicare e aiutare a giudicare va svolto in modo particolare, probabilmente con una modalità diversa da quella dell’insegnante verso l’alunno o del genitore verso il figlio. Forse si avvicina di più al compito dell’amico, che non guida ma affianca, che non impone ma propone (lasciando anche all’altro la libertà di evitarlo e passare oltre). Forse è proprio dentro una relazione simile all’amicizia – in cui si giudica con amore (caritas in veritate) – che può rendersi evidente una Presenza di altra natura in grado di smuovere anche i cuori più annichiliti.
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