“I nomi italiani possono essere più d’uno, ma i nomi devono seguire le cose”, ha detto Matteo Renzi in una lunga intervista al Tg2. Era stato interpellato sul futuro della Nato nella crisi ucraina e l’ex Premier ha rilanciato l’ipotesi di un italiano al vertice dell’Alleanza atlantica al termine di una riflessione molto articolata sull’emergenza geopolitica.
Tre i punti-chiave. Primo: la Russia di Vladimir Putin ha certamente commesso “un grosso errore” nello scatenare l’invasione in Ucraina. Secondo: l’indignazione e la mobilitazione di natura umanitaria sono una prima e legittima risposta, assieme alla ritrovata unità fra Usa ed Europa; tuttavia “è compito della politica trovare soluzioni”, quindi far cessare la guerra e abbassare al più presto le tensioni e i rischi creati a tutti i livelli globali. Terzo e non ultimo: l’Italia già all’epoca degli accordi di Minsk del 2015 aveva additato il “modello Alto Adige” per i territori russofoni e separatisti dell’Est Ucraina (e Renzi, allora Premier, ha sottolineato che Mosca aveva dato segni di attenzione).
Vi sono pochi dubbi che Renzi guardi con molta attenzione alla designazione del nuovo Segretario generale della Nato: un posto tradizionalmente riservato a un ex Premier europeo, oggi ricoperto dal norvegese Jens Stoltenberg. Quest’ultimo è stato appena prorogato per un anno: nei fatti fino a che la crisi russo-ucraina troverà una prima stabilizzazione. Allora, più che prevedibilmente, la Nato stesso entrerà in una fase di vera e propria rifondazione: anche alla luce degli impegni già assunti dai grandi Paesi europei di avviare progetti nazionali di riarmo. E difficilmente, in una svolta così cruciale, l’incarico di Segretario generale sarà assegnato a un leader non Ue come Stoltenberg.
Quando Renzi riconosce di non essere l’unico italiano candidabile alla Nato, cita implicitamente altri tre Premier: Mario Draghi, in carica; Enrico Letta, leader del Pd e potenziale candidato Premier alle elezioni politiche fra undici mesi; e Paolo Gentiloni, attuale commissario Ue agli Affari economici. Dietro tutti questi nomi italiani teoricamente in lizza per l’Alleanza vi sono tutte le complessità di un passaggio politico nazionale condizionato in misura determinante dall’eccezionalità geopolitica.
La narrazione corrente (in parte confermata ieri dall’interessato in un’intervista al Corriere della Sera) vede Draghi in congedo da palazzo Chigi: per nulla attento al prossimo voto e anzi convinto che l’Italia debba tornare a essere guidata da un Premier eletto. Un Draghi in pre-uscita dall’Italia si ritrova dunque inevitabilmente al centro dell’escalation di voci di grande rimpasto degli organigrammi internazionali. Ed è su questo versante che numerosi osservatori sono rimasti colpiti dalla sintonia di Draghi con il “radicalismo ucraino” del Presidente Usa Joe Biden: che, certamente, avrà prima e ultima parola sul nuovo Segretario generale Nato. Sul fronte “dem” d’Oltre Atlantico, d’altronde, non va dimenticato che lo stesso Renzi ha potuto maturare un rapporto consolidato con Barack Obama e lo stesso Biden nel biennio precedente la vittoria di Donald Trump.
Letta sembra presentare un cursus più classicamente europeo rispetto al globetrotter Renzi (spicca il lungo soggiorno a Parigi ai vertici di SciencePo). È vero tuttavia che il leader del Pd è oggi il più che teorico candidato Premier dell’intero centrosinistra nel marzo 2023 (o secondo alcuni già in autunno). Tornato un anno fa dall’auto-esilio francese per rilanciare il Pd (anche dopo la scissione renziana di Iv), Letta è sopravvissuto ed è stato certamente rinfrancato – sul piano politico – da nuovi scenari globali favorevoli a “maggioranze obbligate”: a traiettorie politiche nazionali come quella che domenica prossima probabilmente confermerà Emmanuel Macron alla presidenza francese.
Su questo orizzonte – ancora nebuloso – Renzi sembra aver giocato d’anticipo sul lato italiano del tavolo Nato: sollecitando in qualche modo dell’appoggio del Pd lettiano (e dietro di lui del Quirinale “dem” di Sergio Mattarella). In caso contrario, Renzi si terrebbe le mani completamente libere: prevedibilmente per una competizione “dal centro guardando a destra” con il rivale di sempre.
Se d’altronde per Renzi il segretariato Nato sembra l’unica poltrona internazionale abbordabile, non così per Draghi. Per l’ex Presidente della Bce l’incarico su misura sembra da tempo quello di “ministro della Finanze Ue”: che sarebbe già stato creato se la pandemia e ora la guerra non avessero cancellato la fase di revisione della governance economico-finanziaria dell’Unione messa in agenda da Macron e dall’allora cancelliere tedesco Angela Merkel. Quest’ultima è uscita di scena e la crisi russo-ucraina ha intaccato la forza della Germania al centro dell’Unione: ma la riscrittura dei Trattati di Maastricht è divenuta una priorità ancor più pressante dopo il varo del Recovery Fund. E la drammatica pressione esercitata da una nuova “guerra mondiale” in territorio europeo potrebbe accelerare un rimescolamento vasto di grandi incarichi.
Non è un mistero che la conferma di Macron potrebbe avere come conseguenza il richiamo a Parigi – come nuovo primo ministro – dell’attuale presidente della Bce, Christine Lagarde. Quest’ultima, dopo tre anni, non ha ancora accumulato l’autorevolezza necessaria ad affrontare una fase di impegno senza precedenti alla guida della politica monetaria dell’euro. L’inflazione indotta dalla crisi post-Covid e neo-energetica è già fuori dai parametri statutari della Bce, in un contesto di ripresa a rischio e di indebitamento pubblico straordinario, con tassi in graduale risalita. Chi potrebbe garantire un pilotaggio sicuro in caso di congedo di Lagarde?
Una successione politico-istituzionale “di ordinaria amministrazione” vedrebbe subentrare l’attuale vice (il portoghese Luis De Guindos) oppure il numero uno della Banca di Francia: François Villeroy de Galhau, tecnocrate esperto stimato. Ma sembra difficile che in una fase di eccezionale instabilità la “vacatio” all’Eurotower possa risolversi in termini ordinari. Non è affatto escluso, quindi, che la Germania voglia nel caso rivendicare per sé la prima poltrona di Francoforte, dopo quasi un quarto di secolo di unione monetaria (finora al vertice Bce si sono alternati un olandese, un italiano e due francesi). Berlino è in crisi di leadership complessiva: l’avvitamento della questione russo-ucraina – con il suo impatto diretto sul gasdotto Nord Stream 2 – ha messo in forte difficoltà al debutto il neo-cancelliere Olaf Scholz e la sua maggioranza “semaforo”.
Se alla Bce dovesse approdare un banchiere tedesco (ad esempio l’ex Presidente della Bundesbank Jens Weidmanm) è quasi scontato che a Bruxelles andrebbe avvicendata Ursula von der Leyen: fra l’altro esponente della Cdu merkeliana, sconfitta alle recenti elezioni e oggi all’opposizione a Berlino. E se l’eurocrazia si accingesse a cambiare i suoi equilibri in quella direzione, Draghi sarebbe da subito molto alto nelle quotazioni per una “prima poltrona” a Bruxelles: presidente del Consiglio Ue, presidente della Commissione o primo “ministro delle Finanze”.
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