Caro direttore,
in questi giorni internet funziona e ne approfitto. Il quotidiano Avvenire ha pubblicato la notizia del blitz dell’esercito nella cattedrale, uffici e residenza dell’arcivescovo di Mandalay. Purtroppo – nella sua gravità – la cosa non è nuova. Ciò avveniva regolarmente negli anni bui della repressione e ora i Signori del Male hanno ripreso antiche abitudini. Drammaticamente ciò non accade solo nei confronti dei cattolici e cristiani in genere (varie chiese protestanti sono presenti nel Paese), ma anche verso i (pochi) monasteri buddisti non allineati e le moschee islamiche.
Poiché, immagino, non molti conoscono il Myanmar mi permetto di spiegare meglio il contesto. Mandalay è il centro culturale-religioso del paese, nonché la seconda città per numero di abitanti. Direi che Mandalay potrebbe essere paragonata (per quanto valgano i paragoni) a un mix tra Firenze, Milano e Roma. Perché la capitale amministrativa Naypyidaw è una sorta di Brasilia (era una cittadina trasformata in capitale politica), mentre la capitale commerciale è Rangoon, ma il cuore del paese è Mandalay: è un po’ la sintesi di tutto.
Adagiata sull’Irrawady (letteralmente: il fiume degli elefanti perché lì si abbeverano gli elefanti), circondata dalle colline, è al centro del Myanmar. La Cattedrale di Mandalay è una semplice chiesa che potremmo vedere in ogni nostro paesino italiano. Abituati alle cattedrali europee, sorriderete vedendo le foto che vi invio. Ma, come dicevo, i paragoni valgono per quel che valgono. Ricordo bene la struttura: a fianco della cattedrale vi sono gli uffici della curia, gli appartamenti del vescovo e suoi collaboratori nonché una foresteria ove i parroci che si recano a Mandalay per riunioni ed esercizi trovano accoglienza e possono depositare le loro cose.
Cosa è accaduto? Settimana scorsa una cinquantina di militari sono entrati nel cortile della cattedrale, hanno occupato la chiesa, gli uffici, gli appartamenti e la foresteria. “Ovviamente” hanno messo tutto a soqquadro, perquisito ogni stanza, requisito i pochi spiccioli, letto ogni documento riservato e non, sequestrando sacerdoti e vescovo per varie ore. In tutto questo tempo i fedeli hanno temuto risvolti più pesanti ma – in assenza di elementi di contestazione – alla fine sono stati liberati tutti.
Sono felice che Avvenire abbia pubblicato la notizia, ma ciò avviene quotidianamente nelle case di ognuno di noi. L’intento è quello di arraffare quanto possibile e instillare un clima di terrore, facendo sentire a ognuno il potere della violenza. A cui, come suor Anne mesi fa, la Chiesa risponde inginocchiandosi e usando il “potere dei senza potere”.
Permettetemi due parole sull’arcivescovo di Mandalay: mons. Marco Tin Win. Un grande piccolo uomo.
Piccolo perché la statura non è certo il punto forte della razza birmana. Uomo mite e molto misericordioso: mi sono confessato da lui e sempre ha avuto prima di tutto parole di valorizzazione per quanto (poco) facevo per la Chiesa. Ciò che mi ha sempre colpito della sua storia personale è che egli è l’unico cattolico di una famiglia totalmente buddista. Mi sono sempre domandato come e dove soffi lo Spirito Santo. La sua conversione al cattolicesimo avvenne semplicemente perché, abitando davanti alla cattedrale, frequentava quella “strana gente” e ha incontrato qualcuno che l’ha introdotto al cristianesimo.
Ma, pur nella provvisorietà di questo incontro, ha capito così bene cos’è il cristianesimo che, da semplice sacerdote – ancor prima della sua nomina, prima del Covid e del golpe – mi chiese come poteva fare perché anche in Birmania ci fosse un esempio di monachesimo benedettino. Io, uomo d’affari, gli chiesi il perché. La risposta fu pacata ma netta: “Inutile spiegare a parole. La mia gente deve vedere cos’è il cristianesimo. Se la gente vede, capisce la differenza tra andare a mendicare come fanno i monaci buddisti e proporre l’ora et labora e – soprattutto – anziché contemplare il nulla, noi contempliamo sempre una Presenza”.
Quell’incontro, caro direttore, lo relegai nell’ultimo file del mio cervello. Oggi dico: ho incontrato un profeta. Certo timido. Non è un Wojtyła. Ma già nei primi giorni del golpe, quell’uomo non ha esitato e ora silenziosamente resiste, per come può, alla violenza dei militari.
Un lettore dal Myanmar
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