Il 19 aprile è tornato a Roma, dopo oltre trent’anni, quello che molti considerano il capolavoro sommo di Vincenzo Bellini: I puritani. Il titolo era in programma per la stagione scorsa. Dato il lockdown è stato allora offerto in versione da concerto ed in streaming: il cast è pressoché identico – unico cambiamento il tenore (John Osborn nel ruolo che nella versione da concerto era cantato da Lawrence Brownlee).
I puritani fu l’ultimo grande capolavoro di Bellini proteso verso l’avvenire dal punto di vista sia musicale sia politico. Il libretto fu steso dal Conte Carlo Pepoli, esule che si riteneva grande poeta (il testo prova che non lo era) ma era comunque un grande patriota. Non deriva – come spesso si scrive – dal romanzo di Walter Scott I puritani di Scozia ma da un vaudeville, una commedia leggera con musica, allora di successo, Têtes rondes et cavaliers di tali Ancelot et Boniface, di cui poca traccia è rimasta nelle storie della letteratura e del teatro. Si intrecciano due temi: la guerra tra i puritani di Cromwell e gli Stuart ed un equivoco sentimentale (che nell’opera porta ad una grande «scena della pazzia»; nel vaudeville solo a momenti che vorrebbero essere comici). Occorreva essere veri patrioti per trarre da questo pasticcio un generoso inno alla Patria ed alla libertà.
Come si ricava dalla corrispondenza del compositore con suo zio Francesco Ferlito, Bellini ci mise molto del suo per migliorare il libretto. Anche Rossini intervenne con consigli (che si rivelarono utilissimi) sulla drammaturgia del lavoro. Il compositore chiese ed ottenne un cast vocale da favola: nei ruoli principali, Giulia Grisi, Giovanni Battista Rubini, Antonio Tamburini, Luigi Lablache, Maria Amigo. Il 24 gennaio 1835 fu un successo assoluto, nonostante si fossero dovuti tagliare tre brani a ragione della durata dello spettacolo.
A Roma (come a Palermo nel 2018) è stata offerta l’edizione critica integrale, raramente eseguita (pur se da tempo disponibile in alcune incisioni discografiche): in essa si recuperano una più ricca orchestrazione ed alcuni da capo nelle cabalette, e si riaprono tutti i «tagli di tradizione» delle produzioni correnti. Si tratta di circa venti minuti di musica che, da un lato, comprovano come in Bellini l’orchestra non fosse principalmente supporto al belcanto (come nella stessa Norma ed ancor più ne Il pirata). In secondo luogo, l’edizione integrale contiene un approfondimento psicologico (specialmente del personaggio di Riccardo) che spesso sembra fare difetto.
La vicenda de I puritani si svolge in Inghilterra intorno al 1650, al tempo della guerra civile fra i seguaci di Cromwell e quelli degli Stuart, fedeli al Re Carlo I. L’ardua e contrastata passione tra Elvira, figlia del generale dei puritani, e Arturo, discendente da una stirpe di cavalieri degli Stuart, ostacolata dalla gelosia dell’antagonista Riccardo, conduce la giovane alla follia, immersa nei ricordi del suo passato felice, fino al tanto desiderato ritorno dell’amato che, condannato a morte, si salverà all’ultimo momento graziato da un’amnistia generale.
Libretto piuttosto improbabile, che pone difficoltà in versioni sceniche. Per superarle, ad esempio, un allestimento del 2008 firmato da Pier’Alli (e portato a Cagliari, Bologna, Palermo, Savonlinna e Tokyo, nonché a Palermo nel 2018) situava la vicenda in un contesto astratto ed atemporale. Una celebre produzione con scene e costumi di Giorgio De Chirico, nata al Maggio Musicale Fiorentino e ripresa a Roma nel 1990, rappresentava il conflitto tra Cromwell e gli Stuart come un gioco di carte: l’astrusa vicenda era trasformata in un gioco di carte – una fazione erano i «quadri» e l’altra i «cuori» – quasi a sottolineare l’irrilevanza del testo del Conte Pepoli.
Nel 2012 numerosi melomani e critici musicali sono rimasti tra lo scettico ed il sorpreso alla notizia che un gruppo di teatri «di tradizione» (con risorse infinitamente minori di quelle delle fondazioni liriche) avevano in animo di mettere in scena il lavoro: il «circuito lombardo» (Cremona, Como, Brescia, Pavia) ed il Teatro Pergolesi di Jesi hanno realizzato, allora, un’avventura analoga, affidando la regia, le scene ed i costumi ad una squadra proveniente dal teatro di prosa sperimentale (Carmelo Rifici, Guido Buganza, Margherita Baldoni), e la direzione musicale ed il canto di voci in gran parte giovani e poco conosciute. L’allestimento scenico era molto semplice: un salone di un castello innevato con un secondo piano/soppalco praticabile. I costumi dei «puritani» sono austeri, quelli dei «cattolici» legati al Regno degli Stuart lussuosi. Alcuni decenni fa, proprio dirigendo I puritani in un’edizione di cui c’è un magnifico Cd, l’allora giovane Riccardo Muti mostrò come l’ultima opera di Bellini non abbia solo una delicatissima introduzione e la giustamente famosa polonaise ma sia un ricamo di atmosfere affidate alla sonorità orchestrali tali da rendere plausibile (almeno tanto quanto la vocalità) il libretto.
Frutto dell’ingegno del poeta velleitario Conte Pepoli o dell’arte di Bellini? Bellini morì quasi all’improvviso il 23 settembre 1835, ossia nove mesi dopo il debutto de I puritani,nella villa di Puteaux del suo amico Samuel Lewis. Accusava disturbi di vario tipo da alcune settimane. Non è dato sapere se stesse lavorando ad una nuova opera. Era molto giovane. Si possono fare solo supposizioni su un suo eventuale ruolo nel Risorgimento.
Quando abbiamo cominciato le prove – racconta il regista Andrea De Rosa – quasi contemporaneamente è iniziata l’invasione dell’Ucraina. Ho sentito il bisogno di portare qualcosa di questa grande tragedia in un’opera in cui la guerra c’è anche se, nel libretto, è sullo sfondo. L’ho restituita attraverso l’ossessione che rivive Elvira ogni volta che si sentono i corni nell’orchestra, i corni di guerra appunto, è spaventata, si tappa le orecchie, come sicuramente succede quando risuonano le sirene antiaeree nei luoghi di conflitto. In primo piano c’è invece il trauma grandissimo della protagonista che pensa di essere stata abbandonata dal suo amante il giorno delle nozze. Da qui emerge l’episodio centrale dell’opera: la follia. Elvira perde completamente di vista la realtà. Non vede e non riconosce più quello che ha davanti. Ho interpretato e messo in scena questa follia attraverso una forma di cecità della protagonista”.
Queste intenzioni non si rispecchiano a pieno nella regia dato che fa difetto – strano perché l’esperienza di De Rosa è soprattutto nel teatro di prosa – la recitazione; probabilmente solo un anno fa la stessa opera è stata presentata in versione da concerto, sono state fatte poche prove di scena; questo aspetto potrà essere curato nelle repliche. Una grande idea nella prima parte: il velo da sposa di Elvira diventa il nesso tra i vari elementi. Semplici ma efficienti le scene di Nicolas Bovey. Atemporali i costumi di Mariano Tufaro. Buone, soprattutto nella seconda parte, le luci di Pasquale Mari.
Sul podio dell’Orchestra del Teatro dell’Opera è tornato Roberto Abbado. Ad alcuni ascoltatori, Abbado è parso dirigere un po’ lentamente. Lo è stato se raffrontato con alcuni edizioni discografiche celebri, come quella di Richard Bonynge con i complessi del Teatro Massimo Bellini di Catania e di Riccardo Muti con quelli del Maggio Musicale Fiorentino. Ma l’orchestrazione è differente rispetto a quella diretta da Bonynge e da Muti; quella critica ed integrale richiede scavare di più nel flusso orchestrarle per fare sentire le premonizioni romantiche (ad esempio, nella tempesta con cui inizia il terzo atto, oltre che nei vari momenti in cui la polonaise, con differenti accenti, fa da tema conduttore dell’opera). L’ottima orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, lo asseconda pienamente: spiccano i fiati.
Nel ruolo di Elvira Valton, il soprano inglese naturalizzato australiano Jessica Pratt. La seguo da quando debuttò al Rossini Opera Festival nel 2011 in Adelaide Regina di Borgogna sorprendendo il pubblico con la sua ardita vocalità. L’ho ascoltata ne I puritani nella produzione di OperaLombardia nel 2012 ed in quella del Maggio Fiorentino del 2015. Conosce il ruolo benissimo ed è entrata nella parte al momento stesso in cui si è vista in scena. Ha ormai preso il posto di Dame Joan Sutherland come interprete ideale de I puritani: ha sfoggiato gran virtuosismo sin dalla cavatina del primo atto ed è stata struggente ed emozionante nel lungo ed impervio duetto del terzo.
Nei panni di Lord Arturo Talbo il tenore americano John Osborn, di cui si rammenterà il suo Benvenuto Cellini di Berlioz a Roma qualche anno fà. Lo ricordo giovanissimo al Rossini Opera Festival come spericolato tenore di «bel canto». Da allora sono passati circa vent’anni ma la sua voce è intatta, i suoi acuti appassionanti (nella cavatina del primo atto e nel duetto del terzo). Ha anche approfondito i legato ed i bemolle. Sfoggia un bellissimo sì naturale.
Sir Riccardo Forth è interpretato da Franco Vassallo e Sir Giorgio Valton da Nicola Ulivieri. Vassallo dimostra ancora una volta di essere un grande baritono. Conosco Ulivieri da quando nel 1996 debuttò al Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto in Don Giovanni. E’ un ottimo baritono-basso. Avrei preferito un Sir Giorgio più scuro ma Ulivieri sa scendere ad un registro molto basso. Avvincente il duetto con cui chiudono il secondo atto. Lord Gualtiero Valton era Roberto Lorenzi. Completavano il cast due giovani talenti dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, Rodrigo Ortiz e Irene Savignano rispettivamente nei ruoli di Sir Bruno Roberton ed Enrichetta di Francia.
Il coro del Teatro dell’Opera, diretto da Roberto Gabbiani, conferma il suo alto livello.