Francesco, von Clausewitz e la baby gang

Il no alla guerra di papa Francesco non è un utopismo tra i molti possibili, ma un metodo. Un altro modo di guardare all'altro, a se stessi, alle relazioni internazionali

La guerra come politica condotta con altri mezzi, secondo il pensiero di von Clausewitz, o come fallimento della politica e dell’umanità, secondo il giudizio di Francesco? Quale delle due definizioni meglio corrisponde ai dati di fatto? E possiamo ancora dare per scontato che la prima sia criterio realistico di chi sa come va il mondo e la seconda sia invece un’astratta omelia per anime ingenue?

Per provare a rispondere, partiamo non dall’Ucraina della guerra, ma da un quartiere milanese dell’ordinaria vita un po’ così. Una coppia sui sessanta – lui amico di chi scrive – ai giardinetti con la nipotina. Altra gente, famigliole, bambini. Arriva una baby gang, qualcuno ha pure una pistola giocattolo con cui spara in aria ripetutamente. Tutto con aria strafottente, da “qui comando io” … La gente un po’ alla volta se ne va – più che ovvio temere qualche atto di violenza, tanto più che ci sono bambini. Il parchetto si svuota.

L’amico resta sulla sua panchina e osserva. Quello della pistola gli si para davanti: “E tu che c. ha da guardare, vecchio di m.?”. L’amico – il “vecchio” che poi non è e non ha affatto l’aria del vecchio – gli fa serenamente: “Dimmi un po’, ma tu vai scuola? Cosa fai? Chi sono i tuoi amici? Dove abiti?” e cose così. Arrivano anche gli altri, singolare capannello. A un certo punto il cafoncello della pistola fa: “Ma va che cosa… sei il primo adulto che mi rivolge una domanda”. Di fronte all’aggressore, l’amico poteva ritirarsi o farla a botte, un aut-aut che appare obbligato. Invece ha rotto la catena di questo aut-aut e si è aperto lo spiraglio di un dialogo. Che potrà proseguire, oppure no. Non c’è esito garantito. Però c’è un modo di guardare l’altro non chiudendolo nella definizione di nemico.

Questo episodio (che qualcuno può dire “ma che cosa c’entra?” e invece c’entra eccome) mi è stato utilmente presente sia nel seguire le notizie dall’Ucraina, sia nel rileggere gli interventi di papa Francesco.

In Ucraina sono due mesi di guerra e distruzione e non si intravvede un barlume di uscita dal tunnel. La Pasqua ortodossa non ha ottenuto che tacessero le armi. Il Papa costretto a rinunciare all’incontro con il patriarca Kirill. Nessuno sa più dire se e quando finirà, c’è chi prevede tutto quest’anno e tutto il successivo di conflitto. Si teme un’escalation inarrestabile. Il fronte occidentale è compatto solo in apparenza. L’Europa sa di andare incontro a una terribile recessione economica e sa di non poter fare a memo dal gas russo, sa che le sanzioni le costeranno carissime, mentre gli Usa la loro guerra “per procura” la pagano certo con gli ingenti stanziamenti per le armi, ma non con altre conseguenze. I tedeschi sono dichiaratamente contro l’embargo sul gas. La Finlandia che vuole entrare nella Nato è un fattore securizzante o che innesca nuove fibrillazioni?

Vuoi vedere che il monito di Francesco (peraltro sulla scia di tutti i pontefici dal Novecento a oggi) non è una predica ma un faro? Che abbia ragione lui e torto von Clausewitz?

Anche in riferimento agli spiragli di dubbi, cautele, ripensamenti che cominciano a serpeggiare nei politici e negli analisti europei, risulta particolarmente interessante la lettura de Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace (Solferino-Libreria Editrice Vaticana), che raccoglie i più recenti pronunciamenti di papa Francesco – sino al tutto marzo 2022 – sul tema della guerra e della pace, segnatamente del conflitto russo-ucraino. Bastano questa 150 pagine (in cui sono sovente citati i predecessori, a cominciare da Pio X) per convincersi che Francesco smentisce von Clausewitz. Nel senso che mostra le maggiori ragionevolezza di tutt’altra logica e tutt’altro percorso. 

Esempio: “La guerra non è mai una soluzione”; “La guerra è frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la geopolitica… si continua a governare il mondo come uno scacchiere dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri”. E ancora: “Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora tutto sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare”. “Oggi più che mai occorre divedere lo stile e l’efficacia dell’azione politica… rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni”.

Questo accenno a popoli e nazioni aggancia la responsabilità e il protagonismo di tutti, non solo dei leader, nell’opera di pace: “Dobbiamo essere profondamente impegnati nel rafforzare la fiducia reciproca, perché solo così si stabilisce una pace vera tra le nazioni”, attraverso “un dialogo inclusivo, coinvolgendo le organizzazioni internazionali, le comunità religiose, la società civile”.

E in radice: “Prima che arrivi al fronte la guerra va fermata nei nostri cuori” … “c’è bisogno di dialogo, di negoziato, di ascolto, di capacità e di creatività diplomatica”.

In radice, è un altro modo di guardare e relazionarsi con il prossimo, non considerandolo in tutto e per tutto solo un nemico, reale o potenziale, ma lasciando aperta la possibilità di altro. Per farci un’immagine concreta, guardandolo (il più possibile) come lo avrebbe guardato Gesù. O come il mio amico ha guardato “alla Gesù” quei bulletti della gang. O come – visto che oggi è il 25 aprile – tanti italiani si sono guardati e in qualche modo sostanzialmente perdonati, dopo la guerra. Ché, se non fosse accaduto così, non saremmo neanche qui a festeggiare il 25 aprile, ma ancora a regolare i conti.

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