Per Enrico Letta qualche contestazione nella Milano del 25 aprile era annunciata e non priva di qualche senso politico per lo stesso leader Pd (nessuna giustificazione o accettabilità hanno potuto invece avere gli attesi “refrain” contro la brigata ebraica). È stato probabilmente per questo che Letta non ha avuto esitazioni a sfilare nel corteo-memoriale della Liberazione sfidando a viso aperto chi lo accusava di esser divenuto un “servo della Nato”.
E non è stato sorprendente meno di ventiquattr’ore dopo la vittoria di Emmanuel Macron nelle presidenziali francesi, a Parigi: una rielezione non affatto scontata, strappata in misura importante grazie alla carta geopolitica pesantemente giocata contro la sfidante Marine Le Pen.
Com’era risultato evidente a valle del duello televisivo di mercoledì scorso, a far la differenza fra i due runner al ballottaggio per l’Eliseo era rimasta pressoché solo l’accusa di Macron alla leader del Rassemblement National di essersi fatta finanziare da Vladimir Putin. A Le Pen – che non ha potuto smentire – non è bastato dar prova di maggior incisività su questioni centrali nell’agenda nazionale: compresa l’inflazione da energia, direttamente connessa con la crisi russo-ucraina. Certamente non le ha giovato, in questa fase, neppure la coerenza nell’orientamento “neo-gollista” a far uscire la Francia dal comando Nato: tema su cui peraltro lo stesso Macron è stato a lungo problematico.
Perfino nell’anomala campagna elettorale – coincisa con l’inizio della guerra in Ucraina – il presidente uscente non ha mancato di marcare la sua autonomia rispetto agli Usa e al “commander in chief” della Nato, Joe Biden. Soprattutto nelle prime settimane, l’Eliseo è stato invece il quartier generale dell’Occidente “dialogante”: fiducioso in una qualche conclusione rapida della crisi. È stato, in parte, l’atteggiamento del Governo italiano guidato da Mario Draghi: peraltro presto virato con decisione verso Washington. Ed era attendista anche Letta, che da direttore di Science Po ha sempre tenuto d’occhio la Francia come bussola. E allo scadere del secondo mese di guerra da Parigi è giunto un segnale poco equivocabile: un’adesione piena alla Nato vale una vittoria elettorale che in altra situazione forse sarebbe stata più combattuta.
Come può non coglierlo il leader del Pd all’inizio della campagna elettorale per le politiche italiane 2023? I “dem” italiani si ritrovano in una condizione non troppo diversa da quella di Macron: nettamente minoritari nei numeri elettorali nazionali; stretti a sinistra da un populismo grillino “alla Mélenchon”, ancorché declinante; e a destra da forze più sperimentate nel Governo di quanto si sia presentata Le Pen nel 2017 e nel 2022. Un partito “composito” il Pd: non un “non partito” come En Marche!, ma qualcosa che già Matteo Renzi (forse il vero omologo di Macron in Italia) voleva trasformare in “Partito della nazione”. Qualcosa che in parte è già maturato: dal 2007 – anno della sua fondazione – il Pd è rimasto fuori dal Governo solo 4 anni, pur non avendo mai vinto un’elezione politica. E ha fatto eleggere per due volte due presidenti della Repubblica di fila. Una forza politica ormai “a prescindere”: salvo verifica elettorale fra dieci mesi. Ma il “partito della Nato” è ormai il Pd. Lo hanno detto anche i contestatori di ieri a Milano.
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