Il Congresso nazionale di Articolo 1 si è svolto in un momento per tanti motivi cruciale che ha finito per attribuire a quell’assise un’importanza particolare, se non altro perché era la prima occasione per la sinistra di misurarsi con la destabilizzazione del quadro politico e delle prospettive economiche determinate dalla guerra in Ucraina e dalle sue conseguenze. Articolo 1 fa parte della maggioranza che sostiene il Governo Draghi, è rappresentata nell’esecutivo, ma è la formazione che risente maggiormente delle sfide che altre forze politiche portano avanti alla sua sinistra, proprio sui temi (la pace, il riarmo, le alleanze, la crisi economica) che non reggono più le tradizionali posizioni della sinistra.
Così, fin dalla relazione di Roberto Speranza, Articolo 1 ha voluto cogliere l’opportunità di prendere l’iniziativa: “Ora, se vogliamo dare il nostro contributo al Paese e alla ricostruzione della sinistra dobbiamo avere il coraggio di rimettere tutto in discussione. Con questo congresso, con le nostre proposte programmatiche, con le scelte politiche che ci apprestiamo ad assumere ci sentiamo pienamente partecipi del lavoro di ricostruzione di una ‘sinistra grande’”.
E quale deve essere il ruolo di questa ‘”sinistra grande”? La risposta univoca venuta dal dibattito ha riguardato l’esigenza di sventare una crisi sociale ancora più grave di quella provocata dall’emergenza sanitaria. L’operazione corrisponde ai canoni classici: la redistribuzione del reddito e della ricchezza. Maurizio Landini, intervenendo tra gli applausi dei delegati non ha dubbi: “Serve subito uno scostamento di bilancio e bisogna andare a prendere le risorse dove ci sono: chi si è arricchito in questi anni deve mettere mano al portafoglio, la responsabilità non può essere sempre a senso unico”. Poi rivendica il merito dello sciopero tra i più insensati della storia recente del sindacato: “Quando a dicembre abbiamo fatto lo sciopero generale con la Uil ci hanno dato degli irresponsabili: i punti centrali erano la mancanza di redistribuzione e di una vera riforma fiscale. Oggi questi temi sono ancora più attuali”. Ma si è chiesto il Jean-Luc Mélenchon de noantri che cosa c’è da redistribuire?
L’Istat ha pubblicato nei giorni scorsi il Rapporto sull’andamento dell’economia italiana di marzo. I toni sono prudenti. “A marzo – è scritto – è proseguita la fase di aumento dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo IPCA (+7,0% in termini tendenziali), ma il differenziale inflazionistico con l’area euro è tornato negativo come effetto dell’ampliamento del gap relativo ai beni industriali non energetici e ai servizi. L’impatto della guerra sull’economia italiana – prosegue l’Istat – rimane di difficile misurazione e si innesta all’interno di una fase del ciclo caratterizzata da una crescita di alcuni settori economici, degli investimenti e del mercato del lavoro. Nonostante l’accelerazione dell’inflazione, l’attuale tasso di investimento, tornato ai livelli del 2008, e l’ancora elevata propensione al risparmio potrebbero rappresentare punti di forza per lo sviluppo dell’economia nei prossimi mesi”.
Più pessimista il Fondo monetario internazionale che, nelle previsioni, ridimensiona di oltre un punto la crescita ipotizzata nel Def. Dopo il +6,6% del 2021, il Fmi prevede che il Pil del Paese aumenterà quest’anno del 2,3%, cioè 1,5 punti percentuali in meno rispetto alle previsioni di gennaio. Per il 2023 la crescita è attesa all’1,7%, 0,5 punti in meno. Secondo il Fmi, l’Italia e la Germania sono i due Paesi dell’area euro che hanno subito le maggiori revisioni al ribasso in seguito alla “maggiore dipendenza” dall’energia russa. Per questi motivi è corretto, nell’immediato e in una prospettiva di medio termine, il progetto del Governo di differenziare le fonti di approvvigionamento, anche perché, comunque vada a finire la guerra in Ucraina, si dovrà aprire una fase di profonda autocritica perché è un atteggiamento da irresponsabili essersi messi, per le forniture di energia, alla mercé di uno Stato-canaglia.
L’ultima indagine rapida del Centro Studi della Confindustria (Csc) ha tracciato un quadro molto preoccupante, non solo per quanto riguarda i costi dell’energia e la sicurezza delle forniture, ma per la carenze delle materie prime, degli input intermedi, delle commodities e dei servizi. Tutti handicap avvertiti già nell’ultima parte del 2021 e ovviamente aggravati dopo lo scoppio della guerra. Secondo il Csc – a fronte di tali problemi – il 16,4% delle imprese rispondenti ha già ridotto sensibilmente la produzione. Il peggioramento dell’indice di incertezza della politica economica, che per l’Italia è salito a 139,1 a marzo da 119,7 di febbraio (+38,4% rispetto al 4° trimestre del 2021), accresce i rischi di un pesante impatto sul tessuto produttivo italiano e di un significativo indebolimento dell’economia nella prima metà del 2022.
Quale terapia viene suggerita per affrontare un contesto che rischia di deteriorarsi per fattori esogeni, difficilmente prevedibili perché dipendenti dall’andamento di un conflitto nel cuore dell’Europa? Secondo Landini, basterebbe usare lo scostamento di bilancio per erogare nuovi ristori, sostenere le retribuzioni e le pensioni, prelevare, tramite le imposte, maggiore reddito da chi già oggi paga la quota prevalente del gettito. Vediamo i dati del carico fiscale sulla scorta della documentazione fornita da Itinerari previdenziali: “Scendendo nel dettaglio delle classi di reddito, i lavoratori con redditi da 0 a 15.000 euro (8,2 milioni pari al 38,4% del totale dipendenti) non versano alcuna imposta grazie all’effetto del bonus, mentre all’estremo opposto i 15.135 contribuenti oltre 300mila euro di reddito dichiarato pagano un’imposta pro capite di 289.460 euro l’anno. I dichiaranti redditi da 15 a 20mila euro (2,965 milioni di individui) versano in media 2.150 euro e un ammontare d’imposta totale pari a circa l’85,25% di quanto versano i soli 15mila lavoratori con redditi oltre i 300mila euro. In altre parole, questi ultimi lavoratori, pari allo 0,071% dei contribuenti, pagano tasse per il 5,32% dell’Irpef totale da lavoro dipendente, mentre il 38,4% – ovvero coloro che dichiarano redditi fino a 15.000 euro – ha un’imposta negativa. In generale, il 12,44% dei contribuenti lavoratori dipendenti paga il 58,44% di tutta l’Irpef, mentre il 38,4%, come anticipato, non paga nulla, con un’imposta media pro capite addirittura negativa. Sembra quindi giusto che si alleggerisca il prelievo fiscale laddove risulta più elevato. Quanto ai pensionati, nel 2019 la categoria ha versato 46,87 miliardi di euro di Irpef pari al 28,4% del totale. Il 45,42% dei pensionati (contro il 43,68 della media relativa a tutte le persone fisiche) paga il 7,29% dell’Irpef, mentre il 37,18% paga il 79,61% dell’intera Irpef della categoria”.
Ma la sorpresa più ficcante è arrivata dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, il quale ha teorizzato una linea di politica economica sostanzialmente autarchica: un incremento delle retribuzioni per sostenere il mercato interno, garantito, per giunta, da ristori alle imprese a condizione che rinnovino i contratti e aumentino le retribuzioni dei loro dipendenti. Il tutto in mancanza di una crescita effettiva, adeguata e sostenibile. Come se la circolazione della moneta potesse risolvere i problemi e il potere d’acquisto non venisse taglieggiato dall’inflazione. In sostanza, la terapia proposta servirebbe a un solo obiettivo: la crescita dell’inflazione ovvero l’illusione ottica di riscuotere a fine mese retribuzioni più alte.
Forse sarebbe il caso di riprendere in considerazione la proposta di un patto sociale scartato con troppa fretta e con la consueta arroganza.