Milioni di persone chiuse in casa da più di un mese con serie difficoltà a procurarsi anche da mangiare, gente sfollata forzatamente in altri quartieri o anche in altre città per paura dei contagi, gabbie di cento metri in ciascuna delle quali c’è un poliziotto che controlla tutti i cittadini di quella minuscola area, portoni con sistemi di allarme che avvertono la polizia se qualcuno tenta di uscire di casa, fabbriche tenute aperte per non fermare la produzione, ma con gli operai obbligati a dormirci dentro.
E’ la situazione in cui si trova Shanghai per un numero risibile di contagiati, che ha creato una nuova emergenza Covid, cosa che potrebbe ripetersi adesso anche a Pechino, dove è stato rilevato un aumento dei casi di infezione. “La strategia zero Covid si è dimostrata un fallimento” ci ha detto in questa intervista il professor Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, “e sta suscitando un certo malcontento popolare. Ovviamente il sistema repressivo cinese funziona sempre a pieno ritmo, ma in ogni sistema di questo tipo c’è sempre un punto di rottura. Ora bisogna capire quanto sono alla fine disposti a correre il rischio di rivolte per tenere in piedi questo feticcio ideologico”.
Dopo Shanghai c’è il rischio che adesso anche Pechino venga ingabbiata. La cosiddetta strategia zero Covid non sembra aver portato i risultati sperati. Cosa sta succedendo? L’obbiettivo è sanitario o politico?
La strategia zero Covid, oltre a non funzionare, presenta dei costi sociali ed economici altissimi. Sul nostro sito Bitter Winter abbiamo pubblicato un articolo di un nostro corrispondente dalla Cina che commenta quanto scritto recentemente dal ministro della Salute, cioè che esiste un pensiero preciso del leader Xi Jinping sull’epidemia.
Sarebbe?
Quando Xi prende decisioni sul Covid prima di consultare i medici consulta i testi di Marx ed Engels per vedere cosa hanno detto sulle epidemie. Spiega questo ministro che per un marxista ortodosso ogni problema è un problema ideologico, quindi Xi Jinping dichiara di aver trovato due risposte: le epidemie sono un prodotto del capitalismo e quindi un virus non può nascere in Cina, e che la strategia zero Covid si trova in questi testi.
Davvero? O è una sua invenzione?
Marx ha detto che la cura selettiva delle epidemie favorisce la borghesia contro il proletariato, cioè favorisce i ricchi piuttosto che i poveri, cosa che probabilmente ai suoi tempi era anche vera. Da questo Xi ricava che se si cura la gente, il ricco troverà il modo di farsi curare meglio. Quindi bisogna prevenire invece che curare. Naturalmente questa teoria viene presa in giro sui social network cinesi, dove si dice che con il lockdown il ricco che ha la residenza in qualche resort di mare o di montagna è già scappato dalle città. Quindi la discriminazione anti proletaria di cui parlava Marx in Cina è più reale che mai.
Un doppio fallimento, quindi, sanitario, ma anche ideologico?
Xi Jinping, ormai definito come Mao il grande timoniere, tiene il timone non grazie alla sua competenza sull’epidemia, ma perché secondo lui l’ideologia risolve tutti i problemi. I testi di Marx saranno anche una bella cosa, ma non so quanto questa strategia possa continuare a reggere. Ci sono testimonianze, di cui si occupa solo la stampa specializzata americana, di messaggi cancellati degli abitanti di Shanghai da cui emerge in modo abbastanza impressionante come il malcontento contro la strategia zero Covid sia altissimo.
Questo malcontento potrebbe sfociare in qualche tipo di contestazione, di rivolta?
Purtroppo la risposta è no. E’ uscito recentemente un documento del Comitato centrale del Partito comunista in cui si dice che in Cina c’è un rischio di rivoluzione colorata come in Ucraina nel 2004 e che quindi gli Stati Uniti starebbero approfittando del Covid per organizzare una rivoluzione. Da una parte, è un timore che dopo la caduta dell’Unione Sovietica è sempre presente; dall’altra, si fa allarmismo esagerato per giustificare la repressione o le gabbie per impedire che la gente esca dai condomini. Per ora il malcontento è sotto controllo, perché l’apparato poliziesco è pienamente in grado di reprimere, però se da Shanghai si passa a Pechino non si farebbe che aggiungere malcontento a malcontento. In tutto c’è un punto di rottura, anche nei sistemi dittatoriali. Si dice che si può calmare il malcontento popolare incolpando alcuni alti dirigenti, come si fa sempre nei regimi comunisti.
In autunno si terrà il ventesimo congresso del Partito in cui Xi Jinping aspira a raggiungere lo storico record del terzo mandato. C’è chi però dice che non sia così scontato, proprio a causa della cattiva gestione dell’epidemia e dei problemi economici della Cina. E’ così?
Al momento direi di no, tutti quelli che si potevano opporre sono stati messi in carcere, compreso l’ex ministro degli Interni. L’apparato intorno a Xi è saldo, chi esprime dissenso, se gli va bene, viene mandato in pensione anticipata. Però da oggi al congresso le cose potrebbero degenerare, perché c’è una combinazione di almeno quattro crisi.
Quali?
La prima è quella causata dal Covid. La seconda è il malcontento del mondo degli affari per la posizione assunta sull’Ucraina, dettato dal fatto che una serie di aziende sono colpite da sanzioni secondarie americane. Poi c’è, anche a prescindere dal Covid, il fatto che l’economia è in una fase di stagnazione per molte cause anche internazionali. La quarta crisi, che a noi in Occidente sfugge, è legata alla storia della madre di otto figli trovata in catene in casa, storia che sui social media cinesi è più commentata della pandemia e della guerra in Ucraina. Il fatto che una donna per molti anni abbia vissuto in quello stato proverebbe che una delle promesse che Xi vende, e cioè che in Cina non ci sarà tanta libertà però il controllo della polizia è tale da evitare i crimini, non è vera. E tutte queste crisi potrebbero portare a un cambiamento del quadro politico del regime.
(Paolo Vites)
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