“Io credo perché ho riconosciuto amorosamente Dio nella mia esperienza e da quel momento la mia vita è fiorita”. “Io non sono né laico né ateo, io sono ‘greco’. Essere ‘greci’ significa sapere che devi morire e quindi significa acquisire il senso del limite”.
Così, nelle Conclusioni, Julián Carrón e Umberto Galimberti chiudono il loro dialogo, a render conto delle posizioni espresse in Credere (Piemme, 2022), su cinque lemmi fondamentali: Credere, Cristianesimo e Occidente; Fede e ragione; Le fragilità della Chiesa e il mondo di fuori; Credenti e non credenti di fronte all’angoscia; Libertà, responsabilità e giustizia. Lemmi su cui si confrontano una ragione aperta sul “mistero” (o aperta dal Mistero che mi viene incontro, Carrón) e una ragione aperta sul contenuto prima facie evidente di quel “mistero”, il nulla (Galimberti).
Entrambe coinvolte a riconoscersi nel limite di un’appartenenza a qualcosa più grande di sé, sebbene nell’una (Carrón) “figlia” di Qualcuno su cui posso poggiare il cuore, credere, fidare; nell’altra (Galimberti) puramente filia temporis, pura appartenenza al proprio mistero di nulla, nichilistico, che tutto passa e tutto torna, senza prospettiva di salvezza che non sia il tragico addossarsi il puntuale – ritornante al più in altri – evento di sé, evento del Sé. Stoffa di tempo che non sa cucirsi la tunica della salvezza.
La prima ragione, quella di Carrón, la ragione cristiana, può farsi carico della storia come vettore di salvezza, perché questa ragione è apertura a una trascendenza di senso che, se colta nella sua prospettiva escatologica, è già “qui” con me; già “qui”, cioè “ora”, “quaggiù” mi dà un centuplo, di quello che avevo con me, dentro di me “prima”. Una trascendenza di senso che struttura la civilizzazione (il tempo, la temporalità) dell’Occidente, con cui questo coincide (l’Occidente o è cristiano o non è, Galimberti), anche quando quella trascendenza si secolarizza, si laicizza nella scienza e nella politica moderne, impegnate, come l’escatologia cristiana, a redimere nel presente il passato per un futuro di salvezza o – in termini secolarizzati – “migliore”. Il motivo per cui a Galimberti non interessa rispondere alla domanda se Dio esista o non esista, ma piuttosto se Dio, quel Dio, il dio cristiano, sia presente o no nella storia. Galimberti non lo vede più presente nella storia. Quella struttura della coscienza, perché per lui questo è quel dio, non è più operativo nella storia, e quindi, morta quella struttura della coscienza, è morto l’Occidente; l’anima dell’Occidente non si tiene più in piedi: cristianesimo ed occidente simul stabunt vel simul cadent.
Questo è il significato della diagnosi nietzscheana “Dio è morto”. Ed è morto perché, come Nietzsche aveva visto, è stato ucciso da quelli che vi credevano, che sono passati a credere, si sono “devoluti”, hanno orientato la loro volontà di fede, di affidamento, a “tecnica” e “denaro”. Non alla dedizione di sé a Qualcuno cui devono con fiducia tutto, ma alla dedizione di sé all’autoassicurazione, contro la propria angoscia di morte; alla pura operatività assicurante del calcolo, per dirla alla Heidegger. Quel che il Cristo storico insegnava come Mammona.
In questa diagnosi di Galimberti, sulla scia di Nietzsche, di Heidegger e del suo maestro Severino, la ragione si conferma per lui una strategia di contenimento della “follia” nichilistica che abitiamo e da cui siamo abitati, del “disordine” evolutivo da cui veniamo e a cui andiamo; di quel “disordine” che ha messo capo all’“isola” della coscienza, della psichicità, molto parzialmente cosciente di sé, ben poco capace di “contenimento” alla fine (Freud) di quella “follia”. Un contenimento che si può meglio reggere – perché Galimberti non si aggrega al nuovo eone della tecnica assicurante – in una postura esistenziale (e qui c’è la lezione dell’altro maestro di Galimberti, Jaspers) “greca”, “tragica”. E così siamo alle sue conclusioni. Conclusive per cristianesimo ed Occidente, posta la loro equivalenza storica. Ma tiene questa equivalenza?
Anche solo ad accettare il restringersi del cristianesimo ad una struttura assiale della coscienza nella storia delle civilizzazioni, mettendo cioè da parte il Dio incarnato, questa struttura è “più grande” dell’Occidente. È una struttura che anche sociologicamente, storicamente, mentre è certamente in crisi nell’Occidente, ha dimostrato e dimostra di saper fiorire nella vita (Carrón) di altri “gentili” da quelli che storicamente agli inizi ha motivato a una “nuova” vita fuori dai “giudei” presso cui è sorta.
In questo senso la presenza del Cristo storico è ancora operante nella storia, la impregna ancora. La tesi di Galimberti che cristianesimo ed Occidente sono la stessa cosa, e stanno o cadono insieme, di fatto vuol dire che egli crede almeno al Cristo storico, anche se non lo vede andare più in giro per il mondo. Perché se non ci fosse stato il Cristo storico (e il Dio da lui annunciato), se non c’è Cristo, il cristianesimo come Occidente sarebbe una storia di effetti senza causa. Quindi dagli effetti dobbiamo credere razionalmente, anche se non lo abbiamo incontrato, non ne abbiamo avuto l’evidenza personale, almeno a Lui.
Che è poi quel che propone, in caso di inoppugnabile argomentazione dell’ateismo, Dostoevskij in una lettera famosa alla Fonzivina. Una posizione che riprende Philip Dick nella distopia narrativa (Ma gli androidi sognano pecore elettriche?) che ha dato origine a Blade Runner. Ma proprio perché quella struttura della coscienza che è il cristianesimo è ancora viva nella storia, che il Cristo storico vi è ancora presente ed operante, che lo si può sempre incontrare come Dio incarnato su cui mettere il cuore, in cui credere, per vedere fiorire la propria vita, che è poi la testimonianza resa da Carrón. Che è il motivo per cui con il cristianesimo neanche l’Occidente è ancora morto, che la Trascendenza la possiamo ancora abitare, anziché vederla spegnere, “disperatamente”, in noi come “greci” – il cui “tragico” come senso del divino che ci tiene nel limite è irraggiungibile, perché il “sacro” nella natura ciclica delle cose non c’è più; questo sì è andato via per sempre. E il sacro o è in interiore homine o non c’è. E se vogliamo trovarlo è nell’uomo interiore che dobbiamo cercare.
Sono i testimoni di questo Sacro personale che ci dicono che la partita, per credere in senso proprio, non è chiusa. Un dialogo da leggere.
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