Il dominio americano dell’Europa – inauguratosi nel 1917 durante quella guerra civile europea che si protrasse fino al ’45 – che includeva il malcelato obiettivo di smantellare le potenze imperiali e coloniali europee, fu reso accettabile dal piano finanziario dell’arsenale democratico, il Marshall Plan, che offriva compensazione all’alleato divenuto nemico, l’Urss, concedendogli “in uso” l’area ad oriente dell’Elba (fu il trionfo della componente neo-progressista americana).
Questo dominio americano incontrò difficoltà tra il 1989 e il ’91, con i processi simultanei avviati da Maastricht e lo scioglimento dell’Urss (che era il nemico necessario). Fu per queste ragioni che negli anni 90 gli Stati Uniti con la Gran Bretagna lanciarono il progetto di globalizzazione con trazione finanziaria anglo-americana, in cui l’Europa doveva rimanere una dipendenza lealmente legata agli interessi strategici, monetari ed economici del centro angloamericano (un patto trasversale voluto dai neo-progressisti ma presto prevaricato dai neoaristocratici che dal 2001 divennero bellicisti). L’ingresso della Cina nel Wto nel 2001 (un’organizzazione che gli americani avevano creato nel ’95 con la speranza di regolare il commercio internazionale mantenendo i privilegi e il signoraggio del dollaro) ha cambiato ulteriormente la situazione in cui agiva il dollaro.
La Germania, con la sua Ostpolitik, approfittò delle nuove condizioni spingendo il commercio mondiale mentre creava il suo impero europeo attorno alla sua forza produttiva ben mascherata nel contesto dell’europeizzazione e dell’europeismo. L’aumentato potere tedesco ha creato squilibri strutturali in Europa, ma fu tollerato dagli inglesi che mantenevano, e mantengono anche dopo la Brexit, il controllo sul signoraggio di tutte le transazioni in euro (Libor ed euro/dollaro) in stretto collegamento con Washington (Sistema di pagamenti Swift).
Quanto agli americani, l’affermazione dell’egemonia tedesca in Europa è stata contrastata in modo intermittente, senza mai cessare di tenere il Paese di mira. Complici le profonde ragioni e implicazioni della crisi finanziaria americana (2006-2008), gli americani hanno iniziato a non accettare più la timida “autonomia” europea già durante il secondo mandato di Barack Obama, che vedeva nel circuito Russia-Germania/Ue-Cina una minaccia strategica in grado di minare il dominio del dollaro (i neoaristocratici bellicisti si imposero tra il 2011-14). Il “pivot” obamiano sul Pacifico (il G2) è stato un segnale chiaro, ma anche le attività destabilizzanti dell’Europa meridionale (guerra in Libia, 2011) e dell’Europa orientale (guidate dai settori neocon/neolib americani e conservatore inglese, Victoria Nuland e Brexiters, dopo il 2009) hanno inviato messaggi chiari alla Germania e all’Ue (messaggi che i “sonnambuli” non hanno notato). Fallito il pivot sul Pacifico, anche per l’ambiguità tedesca e dell’Ue, la presidenza Trump (con i suoi termini incendiari) ha cercato di fare pressione su Germania e Ue con l’adozione di misure “ostili” nei confronti dei suoi alleati (destabilizzazione dell’Ue e della Nato) e con tentativi di dialogo con Putin (per riprendere il controllo della situazione creata dalla Germania). Reazioni tardive e mal gestite che hanno fallito.
Le fratture interne create dalla crisi americana del 2008 non sono state sanate con l’elezione di Biden (2020), che è rimasto ostaggio di potenti lobby tra loro alternative: da un lato, il gruppo di interesse neo-aristocratico “tradizionale” (oil & gas, complesso industriale militare, banche e finanza di Wall Street), che agisce secondo i criteri del realismo geopolitico (strategia di potere), dall’altro lo spin-off trasversale neocon-neolib-neodem che sostiene l’imposizione del dominio americano con la forza (neo-aristocratici per la globalizzazione e neo-aristocratici bellicisti per la strategia di guerra) e, infine, la “nuova” global finance – gli ultra miliardari “filantropi” di Davos, i veri beneficiari del surplus monetario prodotto dal “quantitative easing” – che guarda agli altri due gruppi come detriti del passato posizionandosi al di là e al di sopra degli Stati in un mondo gestito da una governance finanziaria oligarchica con tendenze transumaniste. Il gruppo della nuova global finance non ha obiezioni verso i regimi “autoritari”, “autocratici”, “illiberali”, trovando convergenze di interessi sia con il sistema Putin (in particolare gli oligarchi) sia con il capitalismo di Stato cinese (strategia di globalizzazione 2.0).
Dal 2008, gli Stati Uniti vivono una vera e propria “guerra civile” tra questi gruppi di interesse. Questa situazione non garantisce più una coerenza di azione del “mainstream”, ma ciascuno dei gruppi, talvolta in instabile alleanza con uno degli altri, influenza costantemente le determinazioni e le azioni della politica estera americana.
L’amletica condotta di Biden nella guerra russa in Ucraina è la conferma della profonda crisi interna degli Stati Uniti. Una crisi che rende ancor più pericolosa la situazione sia militare sia economica, particolarmente per l’Europa che, guidata da una Ursula von der Leyen senza alcuna strategia, impone sanzioni che più che la Russia danneggiano l’Europa stessa. “Forse UvdL dovrebbe riposarsi” scrive l’influente magazine Politico. Intanto, in Europa, teatro reale dello scontro di potenza russo-americano, la produzione industriale in Germania in marzo è crollata del 3,9% sul mese precedente, quattro volte più di quanto si aspettavano gli analisti di mercato che avevano previsto -1%. Il crollo della produzione industriale, abbinato alla flessione peggiore del previsto dei nuovi ordini dell’industria manifatturiera (-4,7% in marzo) e ai perduranti problemi dei colli di bottiglia, aumenta la probabilità di una stagnazione nel secondo trimestre, anticamera della recessione. “La guerra e le restrizioni provocate dal Covid in Cina possono comportare una recessione economica e con essa un aumento della disoccupazione. Il rischio di insolvenza sui prestiti aumenterebbe e con esso le sofferenze bancarie”, ha detto Mark Branson, presidente di BaFin, supervisore dei mercati e delle banche. Come suggerisce Giulio Sapelli su queste pagine, “riportare la ragione nonostante la guerra di aggressione è inderogabile: solo una nuova conferenza di Helsinki può iniziare a realizzare questo disegno. Si riporti il confronto in campo diplomatico. Ma per far questo non si deve più ricorrere alle sanzioni economiche. Esse sono il principale ostacolo alla fine del conflitto, tutto al contrario di ciò che stupidamente si afferma”.
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