Qualche giorno fa è stata bocciata in Parlamento la proposta di legge costituzionale, prima firmataria Giorgia Meloni, volta all’introduzione del presidenzialismo, il cui perno è costituito dall’elezione diretta da parte di tutti i cittadini del Presidente della Repubblica.
Prima di entrare nel merito della vicenda va precisato che l’introduzione dell’elezione diretta del capo dello Stato è un cavallo di battaglia “trasversale”, poiché, nel tempo, è stata supportata da quasi tutte le forze politiche.
Basti rammentare che in sede di Assemblea costituente, oltre ad Egidio Tosato (democristiano) furono, tra gli altri, Tommaso Perassi (Partito repubblicano) e Piero Calamandrei (azionista) a raccomandare correttivi alla forma di governo parlamentare, anche nella forma di un’elezione più ampia del Presidente della Repubblica, in una funzione non di mera garanzia dell’unità nazionale. Allo stesso modo altri noti personaggi della sinistra hanno appoggiato l’idea di una elettività più ampia del presidente della Repubblica (Prodi, ad esempio), e va pure rammentato che Renzi si è astenuto sulla proposta Meloni dichiarando che non condivideva la modalità, ma non il fine. Per quanto riguarda lo schieramento opposto, sia Almirante che Fini e dal 1995 Berlusconi hanno a più riprese supportato l’idea dell’elezione diretta, seppure secondo modalità diverse.
Ma allora, come mai la bocciatura di lunedì?
Indubbiamente una prima motivazione risiede nel solito vizio italiano per cui una cosa è buona solo se proviene dalla propria parte politica: la stessa proposta proveniente da una forza politica “altra” è a priori sbagliata. L’unica eccezione a questo ragionamento, almeno nella fase più recente, ha riguardato la riduzione del numero dei parlamentari, votata praticamente da tutti. Ma in quel caso la motivazione della quasi unanimità risiedeva nel fatto che secondo i sondaggi più del 90% degli italiani era favorevole alla riduzione.
La seconda motivazione, invece, ha a che fare con un argomento di merito, ugualmente rilevante. Infatti, le diverse forze politiche inseriscono l’elezione diretta all’interno di scenari diversi, con ruoli differenti di Parlamento e Governo. Per esempio il semi-presidenzialismo sostenuto da Ceccanti si basa su un Presidente con ampi poteri che sceglie il capo del Governo, ma ha poi limiti e contro-poteri. Renzi, invece, ritiene che si potrebbe adottare sia il modello francese, ma pure quello americano, in cui Presidente e capo del Governo coincidono, ma tale carica trova forti contro-poteri nel Parlamento, soprattutto nel Congresso il cui sistema di elezione è indipendente da quello del Presidente. Ancora, Berlusconi pensa ad un modello alla francese corredato dalla riforma del Senato federale; e si potrebbe proseguire, poiché quasi tutti quelli che propongono l’elezione diretta del presidente della Repubblica lo accompagnano a modifiche diverse.
Allora qual è il punto? I presidenzialismi possono essere molti e di vario tipo, importante è che poi abbiamo una loro coerenza interna tale da raggiungere il loro obiettivo: limitare lo strapotere dei partiti e condurre alla stabilità di governo. E qui possiamo finalmente giungere a vagliare la proposta Meloni: il presidente della Repubblica eletto a suffragio universale diretto avrebbe assunto il ruolo di garante dell’unità nazionale ma anche di capo del Governo, salva delega al Primo ministro – da lui nominato –; non avrebbe però avuto la responsabilità politica degli atti adottati, che avrebbero dovuto essere controfirmati dai ministri proponenti, veri responsabili; infine, il governo avrebbe potuto essere sfiduciato dal Parlamento che avrebbe potuto indicare il nuovo Primo ministro da nominare.
Balza subito agli occhi il difetto principale della proposta: a cosa serve eleggere direttamente il presidente della Repubblica se poi questo non è responsabile degli atti che adotta e, soprattutto, non ha l’ultima parola sul Governo che può essere sfiduciato da Parlamento, il quale per di più indica pure il nuovo Primo ministro?
Insomma una proposta profondamente incoerente che, soprattutto, non avrebbe risolto né il tema dello strapotere (o incapacità) dei partiti, né quello dell’instabilità governativa.
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