Chiedimi se sono felice. Era il titolo di un film del 2000, firmato da Aldo, Giovanni e Giacomo, che si sono rivelati veri precursori di una tendenza che oggi sta registrando giorno dopo giorno sempre più adepti, quasi una filosofia di vita che s’interroga sui valori, sui tempi, sugli equilibri. Ed è anche così che si arriva a risultati come questi: le cessazioni dal lavoro sono in aumento, in forte, inarrestabile aumento. In Veneto ammontano a 42.500 ad aprile (+54%) e a 171.600 nel quadrimestre (+43%), quasi la metà per fine termine di contratti a tempo determinato e un altro 40% circa per dimissioni, “la cui crescita nel recente periodo è un fenomeno ormai acclarato”, come chiarisce l’ultimo report mensile di VenetoLavoro.
Raddoppiano anche i licenziamenti, ma il confronto con il 2021 è condizionato dal blocco allora vigente e si tratta in ogni caso di una quota marginale, attorno al 7%, rispetto al totale delle cessazioni. In Veneto si resta ancora in territorio positivo: nello scorso aprile il saldo tra assunzioni e cessazioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, a tempo determinato e di apprendistato è pari a +13.700 posizioni lavorative, per un totale di 37 mila posti di lavoro guadagnati nei primi quattro mesi dell’anno. Si tratta in entrambi i casi di dati nettamente migliori rispetto a quelli registrati nel 2020, in piena crisi sanitaria, e nel 2021, periodo caratterizzato in Italia dall’avvio della campagna vaccinale e dai primi segnali di ripresa economica. Rispetto al primo trimestre dell’anno, però, la crescita sembra aver subito un vistoso rallentamento: se infatti il saldo gennaio-marzo 2022 ha registrato un bilancio occupazionale simile a quello del 2019, il saldo di aprile è inferiore a quello degli anni pre-pandemia, quando si era sempre mantenuto saldamente sopra quota +19.000 unità.
“Il bilancio positivo del primo quadrimestre – specificano a VenetoLavoro – è dovuto in larga parte ai contratti a tempo determinato (+24.000) e indeterminato (+13.300), mentre i contratti di apprendistato registrano un calo di 400 unità. Si conferma e si consolida però anche in aprile la tendenza di crescita delle assunzioni in apprendistato e delle trasformazioni a tempo indeterminato. Sono infatti proprio le trasformazioni e non un cattivo andamento della forma contrattuale ad aver determinato il saldo negativo dell’apprendistato, che tuttavia vede in aprile un’inversione di tendenza”.
Le assunzioni, complessivamente 56.200 ad aprile e 208.600 da inizio anno, segnano nell’ultimo mese un aumento del 68% rispetto al 2021 e sono quasi quattro volte quelle registrate nel 2020, con una crescita più sostenuta per le donne e i giovani. Il 30% sono part-time, quasi la metà nel caso delle donne. Il bilancio occupazionale positivo è trainato dalle province di Venezia e Verona, che ad aprile fanno registrare, rispettivamente, +8.300 e +5.000 posizioni lavorative, a dimostrazione di un andamento stagionale caratterizzato in questo periodo dall’attivazione di contratti legati al terziario nelle zone a maggiore vocazione turistica.
Ma torniamo al fenomeno più vistoso: le dimissioni volontarie dal posto di lavoro. Abbiamo riportato il dato veneto, ma in tutt’Italia è così, a volte anche peggio, come in Umbria dove l’Agenzia Umbria ricerche rivela che le dimissioni dei lavoratori dipendenti del settore privato e degli enti pubblici economici nel corso del 2021 hanno superato quota 23.600, quasi un quinto in più rispetto a quelle del 2019 e quasi due quinti in più rispetto all’anno dello scoppio della pandemia. Facendo le proporzioni, è un record. L’Osservatorio BenEssere e felicità (il primo strumento di misurazione della felicità italiano che raccoglie dati da 1.314 lavoratori sia autonomi che dipendenti), nel suo rapporto 2022, sostiene che quasi la metà dei Millennials, ovvero della generazione di giovani nati tra la metà degli anni ’80 e i primi anni del 2000, sarebbe “alla ricerca di nuove opportunità di lavoro e ha in mente di cambiarlo entro un anno”. È quella che passa per “Great Resignation” (le grandi dimissioni), un fenomeno nato negli Stati Uniti ma arrivato praticamente subito nel Vecchio continente, fiorendo sul terreno fertile dei lockdown da pandemia, spartiacque che ha dato modo e tempi per fare un punto e riconsiderare le proprie priorità.
Ne sta venendo fuori che la soddisfazione, appunto la felicità, hanno scalato la classifica e sono adesso al primo posto, facendo slittare in giù il lavoro, quello ordinario ma ancor più quello straordinario, che non trova più le disponibilità di un tempo. E soprattutto là dove queste ultime farebbero parte integrante del mansionario, arrivano le dimissioni. Uno studio di Randstad (multinazionale olandese che si occupa di ricerca, selezione e formazione di risorse umane, tra le più importanti agenzie per il lavoro al mondo) chiarisce che per un giovane su due il benessere vale più dello stipendio. E dopo le grandi dimissioni, si sta velocemente arrivando alla crisi del turnover: Ipsoa (l’istituto professionale per lo studio e l’organizzazione aziendale), citando il Microsoft work trend index, avvisa che “un numero sempre maggiore di persone sta pensando di lasciare il proprio impiego. Dopo la pandemia le persone hanno voglia di cambiamento e le prospettive di carriera sono cambiate drasticamente. Con sempre più aziende passate all’ibrido o allo smart working, le barriere geografiche sono state abbattute e le opportunità sono aumentate”.
Dunque, come arginare l’emorragia? “Per rallentare il tasso di abbandono – sostiene ancora Ipsoa -, le aziende dovranno ripensare gli approcci tradizionali al lavoro, puntando alla fidelizzazione dei dipendenti e a soddisfare le loro esigenze, a partire dalla possibilità di garantire il passaggio allo smart working o al lavoro ibrido”. Più benessere per i dipendenti, insomma (anche se andrebbe ristabilito chi esattamente dipende da chi), più soddisfazioni professionali, più possibilità. E poi magari domandare a tutti se sono felici…
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