“Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. L’autore del Trattato sulla tolleranza non scrisse mai questa celebre citazione che pure lo rappresenta perfettamente.
Voltaire muore appena in tempo. Non vede il suo bel trattato gettato alle ortiche insieme al canto Per la pace perpetua, ultimo appello di Kant. La Rivoluzione francese accecata di presunzione e speranza inaugurò l’era dell’intolleranza. Guerre da coreografie barocche e minuetti marziali diventano guerre totali, guerre di popoli. I morti civili e militari non si contano più.
“Dio usa le guerre per insegnare la geografia alla gente”. Secondo Ambrose Bierce c’è un fine didattico in tutto questo. Abbiamo imparato dov’è l’Ucraina, il Donbass, il Mar d’Azov.
Lo “stato di eccezione”, l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, è anche una guerra dell’informazione, largamente già vinta dall’Ucraina e implicitamente da tutti i Paesi al di qua della nuova Cortina di ferro, senza però ascoltare le altre voci del mondo che non la pensano esattamente come noi. Un po’ di scetticismo dovrebbe ricordare che la verità è una ricerca tra opposti, che il dialogo dubitativo va mantenuto aperto ad ogni costo per non morire di spettacolo: più si assiste meno si vive.
L’intolleranza è ancora il piatto del giorno soprattutto nei media e social. Ma attenzione, scrive Susanna Tamaro, “Prima dei mortai, silenziosamente, si armano i cuori”.
L’intransigenza della litania dei “senza se e senza ma” e l’intolleranza umiliano la mente e nascondono l’estrema semplificazione del pensiero.
Chi non vorrebbe prendere partito per il bene, lottare contro il male, stare dalla parte dei giusti. Non conosciamo a priori la verità e la giustizia, né le possiamo imparare una volta per tutte. Esse vanno comprese di volta in volta nella dialettica del concreto.
Chi non vorrebbe adeguarsi alla voce dei più. Nel conformismo si è trascinati dalla corrente, non c’è bisogno d’altro, né di investimento intellettuale né di responsabilità morale. Una volta dentro il flusso ci pensa l’abitudine a renderci indifferenti alla verità.
Conformismo è ignavia. Agli ignavi Dante nega persino l’Inferno e li getta nell’Antinferno proprio perché hanno scelto di sopravvivere alla vita, di non viverla nel suo dono misterioso.
Insisto sulla strepitosa unilateralità della nostra informazione, il suo totale appiattimento non tanto sulle indiscusse scelte della nostra governance (da noi anche il viceré è un suddito), quanto sull’adesione monolitica all’inappellabile demonizzazione della Russia putiniana. Col male assoluto non si tratta!
La scelta di parte è sempre antagonistica, implica che l’altro sia l’opposto, l’errore, il male, ciò che merita riprovazione e condanna. Esige indignazione, massima espressione di sprezzo e alterità insanabili. Anche l’indignazione cerca una larga adesione per essere contundente e diventare intimidazione (o terrorismo dell’indignazione, come scrive il filosofo Domenico Losurdo) che concede a chi lo pratica il diritto-dovere di bandire, di censurare e infine di educare, secondo i dettami del social engineering o della solita ideologia.
Non possiamo che essere solidali col popolo ucraino, come si ripete spesso per inerzia o per contarci. L’aggressore è Putin e la vittima l’Ucraina. Lo sanno anche i sassi, ma l’Italia – condannata all’insignificanza per manifesta inadeguatezza –, ne fa una ostentazione di fedeltà al diktat del Fronte occidentale identificato col politically correct e col rigore puritano della cancel culture.
L’epica intransigenza dei nostri media ufficiali chiamati alle armi si adegua troppo spesso al pregiudizio di conferma. La disinformazione (“dezinformatsiya”) ha buon gioco tra fake news e asimmetria cognitiva.
Le luci dello spettacolo non giustificano affatto unilateralità e allineamento a reti unificate. La tremenda contingenza non sfugge alle logiche di mercato, ma senza apertura di dialogo al contradditorio c’è solo plagio sociale. Ogni dubbio diviene dissidenza, chi dubita è tacciato di intesa col nemico, la pena è l’ostracismo civile. È caccia al nemico interno.
Si è aperta la gara dell’intolleranza, le declamazioni di fede perpetua e la stesura discreta di liste di proscrizione con immancabili delatori da post-verità incattivita.
I nostri cuori sono avviliti da questa escalation della militanza che soffia sul fuoco. Così come i nostri interessi divergono da quelli dell’amministrazione Biden, ci stiamo difatti infilando dritti come fusi in un tunnel recessivo. E l’Europa? Par di sentire la diplomatica statunitense Victoria Nuland, “Fuck the EU (l’Unione Europea si fotta).
In un’era antitragica, in un Paese vocato al dramma c’è da credere che la coreografia vinca sulla realtà. Si cade nel ridicolo di una sceneggiatura post-moderna con l’immancabile “Armiamoci e partite”.
Più che penoso è doloroso assistere a questa corsa verso l’intransigenza. Quanto l’intolleranza umilii il pensiero lo vediamo nella nuova linea di demarcazione che separa di nuovo noi dagli altri, dove di volta in volta potrebbero essere iscritti gli allievi di Marx o di von Hayek. Ogni filia o fobia potrà riguardare tutto, nemmeno il passato è salvo, ogni revisionista lo potrà riscrivere.
Il direttore d’orchestra Valery Gergiev è stato licenziato dalla Filarmonica di Monaco e sospeso immantinente anche dalla Scala di Milano così come la soprana Anna Netrebko per la loro vicinanza al Cremlino.
Solo dopo proteste la rettrice e il pro-rettore dell’Università La Bicocca di Milano hanno riammesso il corso di Paolo Neri su Dostoevskij che avevano appena annullato. Per lo scrittore “Non solo essere un russo vivente è una colpa oggi in Italia, lo è anche essere un russo morto”, ma questo accanimento è solo attivismo della stupidità.
Sorte peggiore per il balletto del “Lago dei Cigni” di Čajkovskij, il 7 aprile il ministero della Cultura ucraino ha intimato lo stop della rappresentazione in Italia.
Per la slavista Rita Giuliani, la scienza e la cultura sono ponti che corrono molto più in alto della contingenza politica e che uniscono i popoli. Cosa dobbiamo aspettarci che l’attualità ferina ci imponga di bruciare in piazza come nella Berlino del 1938 i libri di Tolstoj, Dostoevskij, Majakovskij?
Replicando l’esempio di Wimbledon che ha bandito i tennisti russi e bielorussi dall’edizione del torneo di giugno di quest’anno anche Palazzo Chigi, da pretendente cobelligerante nello sport, promette di non essere da meno proponendo la loro cacciata dagli Internazionali d’Italia pur avendo questi condannato la guerra.
Questa rappresaglia letteraria non salverà una sola vita umana, ma scaverà un fossato più profondo tra un noi e un loro.
L’antica vocazione di un Paese sognato da sempre dalle genti della immensa pianura sarmatica per la sua intima estraneità all’intolleranza. Sognato per la bellezza e l’incanto di una luce rosea che avvolge tutte le cose – secondo Lord Byron –, per la missione spirituale che la storia o il mistero affidò al Pontifex, il costruttore di ponti tra immanenza e trascendenza, tra popoli e terre.
Potrebbe essere il compito di un Paese-ponte, proteso nel Mediterraneo, metafora dimenticata della possibilità di pace. Un luogo dimentico di aver dato vita alla fondazione dell’Occidente.
Esso dice chi siamo, ossia quello che dovremmo essere. Lo dice il poeta Mandel’štam nel suo amore per Dante e per la nostra lingua, lo dicono Brodskij e Stravinskij, sepolti a Venezia come desideravano.
Il mio amico ed io
siamo d’accordo
andiamo in Italia
Venezia è
la più bella città del mondo
Qui siamo a casa
I nostri cuori vanno
a passeggio sui ponti
La gente sorride è d’accordo.
(D’Accordo, Rose Ausländer. Nata nel 1901 a Černivci, in Ucraina)
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