Quei bambini che hanno sconfitto la morte

I bambini sono tornati protagonisti di eventi drammatici. È il male più insensato di tutti. Eppure, attraverso di loro il Mistero di Dio ci interpella

In queste ultime settimane i bambini sono tornati terribilmente protagonisti delle notizie da prima pagina. Sia quelli coinvolti nelle vicende di cronaca nera del nostro Paese, come i bimbi dell’asilo dell’Aquila travolti da un auto o la bimba di tredici mesi morta in vacanza a Sharm cadendo dal balcone, sia quelli al centro della sanguinosa guerra ucraina, sepolti nelle fosse comuni o, in un macabro vortice di violenza, privi anche della stessa sepoltura.

La morte di un bambino ci sembra tanto più atroce quanto più non solo si pensa all’innocenza di un’età in cui la vita dovrebbe essere protetta e intangibile, ma anche in relazione al ciclo biologico dell’esistenza, che rende irrazionale e ingiusto vedere un figlio morire prima dei genitori. Il dolore innocente è un tema che ha attraversato molte pagine del pensiero filosofico, letterario e teologico dell’occidente. Gli uomini cercano una risposta ad una vita che non c’è più e spesso la morte vera non colpisce solo il corpo del figlio, ma anche l’anima dei genitori, in una spirale di disperazione spesso sottaciuta, ma capace di mettere in crisi non poche famiglie.

Passano così i mesi, le festività, gli anniversari, ed affiora alla mente la vita che non c’è più e quella che poteva esserci. Il nostro corpo e la nostra mente sono fatti per superare il dolore, per dimenticare e andare oltre, eppure basta un nonnulla per tornare nella spirale dei ricordi, dei risentimenti, della rabbia contro coloro che giudichiamo colpevoli. E contro Dio.

Non ci sono parole per un’esperienza così dilaniante che ci imprigiona ad una data, ad un anno, a precise foto, a nitidi ricordi. Eppure non si può solo stare a guardare: è giusto provare a portare insieme un po’ del dolore dell’altro. Sommessamente si potrebbe forse notare tre piccole cose decisive per ogni famiglia chiamata a portare al cimitero una bara bianca.

La prima cosa è che noi abbiamo dato la vita a questi bambini e loro, morendo, hanno dato a noi una vita da vivere: la vita che ci è rimasta è la loro eredità, è ciò che ci hanno lasciato. E non una vita neutra, ma una vita segnata dal dolore e dalla fatica: è questa la vita che chi muore ci lascia da vivere. Amarli significa accettare di vivere quella vita, penetrandone il mistero.

La seconda cosa, strettamente connessa alla prima, è che noi spesso guardiamo alla vita che non c’è più o che non ci potrà essere, mentre ci dimentichiamo che una vita c’è, una vita esiste. E non una vita qualunque, ma una vita in cui continuare ad essere padre e madre accogliendo quanto il Mistero ci vorrà proporre di amare.

La terza cosa è forse la più dura: nessuno decide di avere un figlio. Per quanto uno possa fare dei tentativi, la vita è sempre una sorpresa. E qui sta la provocazione grande che occorre fare. Ed è la provocazione che fa Milosz nel Miguel Manara: perché hai paura di perdere ciò che ha saputo trovarti? Nessuno perde un figlio, nessuno perde un marito o una moglie: il tempo della morte è il tempo in cui la vita viene ritrovata. Non stando fermi, non chiudendosi nel dolore, ma dando una possibilità al Mistero. Dando al Mistero la possibilità di rispondere al dolore che ci portiamo appresso.

Alla fine la cronaca quotidiana cerca colpevoli, cerca processi, cerca giustificazioni perché pensa che esista qualcosa che possa compensare la perdita. La sfida vera è un’altra: dare una possibilità alla vita stessa, al Mistero. Tornare a chi quella vita ha voluto e generato perché possa di nuovo volere e generare. Non sono solo parole, ma una possibilità vera. Più forte di ogni tragedia, più decisiva di ogni guerra.

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