CHI ERA TOTÒ RIINA, IL CAPO ASSOLUTO DI COSA NOSTRA
«Totò Riina è il più atipico e pericoloso padrino che la mafia siciliana abbia mai conosciuto nella sua secolare storia». Così lo ha definito Attilio Bolzoni, che con Giuseppe D’Avanzo ha scritto il libro “Il capo dei capi“. Era infatti considerato il capo assoluto di Cosa Nostra fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993. Due i soprannomi con cui era etichettato, legati a due dettagli. Uno fisico, infatti era chiamato u curtu per la sua bassa statura. L’altro caratteriale, infatti era chiamato anche la belva per la sua brutalità sanguinaria. Infatti, era stato condannato a 26 ergastoli e sarebbero oltre 100 gli omicidi in cui è coinvolto.
Nel suo ambiente gli rimproverano due colpe imperdonabili: la prima è di essersi fidato di “estranei” che gli hanno fatto credere che fosse lui a condurre il gioco, l’altra è di avere spinto lo Stato ad attaccare quella che era a tutti gli effetti l’organizzazione criminale più potente del mondo occidentale. Infatti, Totò Riina è considerato l’uomo che più di ogni altro ha contribuito al disfacimento di Cosa Nostra. Nel giro di pochi anni scatenò contemporaneamente due guerra, una interna contro l’aristocrazia mafiosa, l’altra esterna contro i nemici delle istituzioni. Totò Riina era convinto che avrebbe messo in ginocchio lo Stato, ma Cosa Nostra ne è uscita a pezzi.
TOTÒ RIINA E LA STAGIONE DELLE STRAGI
L’ascesa in Cosa Nostra di Totò Riina avvenne col sangue e la violenza. Riuscì ad abbattere un’intera classe dirigente: dall’ex segretario provinciale della dc Michele Reina al presidente della Regione Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale Capo dello Stato. Fece cadere magistrati, giornalisti, investigatori medici e superprotetti, come Carlo Alberto Dalla Chiesa. Condannato in contumacia all’ergastolo col maxiprocesso, fu inchiodato dalle rivelazioni del primo pentito di rango, Tommaso Buscetta. Totò Riina si vendicò facendogli uccidere undici parenti. E dichiarò guerra allo Stato.
Cominciò la stagione delle stragi, che volle nonostante non tutti furono d’accordo. Nella sua lista i nemici storici Falcone e Borsellino, grazie a cui ci fu il maxiprocesso, e chi lo aveva tradito. Nel 1993 fu arrestato dopo 24 anni di latitanza, ma fu un arresto su cui restano molti punti oscuri. Continuò a comandare dal carcere, dove rivendicava le stragi e si vantava di aver fatto fare la «fine del tonno» a Falcone. Inoltre, tornò a minacciare i magistrati in vita. Ad esempio, nel 2013 auspicava di colpire il pm Nino Di Matteo che rappresentava l’accusa nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, oggi alla Direzione nazionale antimafia. Nel 2017 i suoi legali fecero richiesta di differimento della pena a detenzione domiciliare per lo stato precario della sua salute: morì il 17 novembre di quell’anno nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma.