Emergenza medici. Migliaia di medici ogni anno si dimettono dal loro posto nel Sistema sanitario nazionale e una recente indagine mostra che un giovane medico su tre si pente della scelta fatta per la medicina. Si dissolvono, fuggono, o, come si dice in Toscana, “si sdanno”. Eppure il lavoro c’è, è molto più a portata di mano dopo la laurea rispetto a qualche anno fa. Allora perché fare il medico non è più allettante? Perché 8mila medici si sono dimessi dal Ssn negli ultimi 3 anni? L’ordine dei medici della Toscana ha recentemente dato dei suggerimenti per invertire la rotta, facendo perno su stipendio, carico orario e ferie. Ma è qui il problema? Credo che ci siano da risolvere almeno due punti, dei quali però non si parla.
Primo. Fare il medico ti mette a disagio; e nella società della performance, vedere i malati, dover parlare e risolvere casi tristi, interloquire con estranei non è la priorità. Il disagio non è previsto nella propaganda fatta ai giovani: molto meglio pensare ad un futuro da influencer. Almeno questo è quanto emerge dalle aspettative dei teenagers nostrani e stranieri: dal 30 al 50% sognano di diventare vlogger o youtuber. Anche perché la mentalità corrente è quella che vuole essere ipocritamente spensierata, non pensare ai drammi propri né tantomeno altrui (vedi a chiarimento il recente film Don’t look up). Il disagio giovanile avanza, ma meglio stordirsi con i videogames, alcol e quant’altro, che sono in drammatica ascesa. Meglio commuoversi per i pianti dell’Isola dei famosi piuttosto che per quelli di chi sta male, come spiegava già lungimirante nel secolo scorso il filosofo Zygmunt Bauman.
Secondo. Fare il medico è per sua natura creativo, cioè è una scoperta per indizi di quello che fa soffrire qualcun altro. Ma oggi la creatività è bandita dall’orizzonte medico: devi agire per protocolli, come ben insegnava Ivan Illich nel suo testo seminale Nemesi Medica. Allora se vedi un neo, mandi il paziente dal dermatologo, che lo manda dal chirurgo, che lo manda dall’anestesista, che lo manda dal pediatra se è sotto i 18 anni, il tutto per qualcosa che si poteva risolvere senza tanti giri, ma che per inveterate usanze non scritte, per medicina difensiva, finisce per far fare un’Odissea di giri al paziente. Infatti questo sistema è stato battezzato “Ulysses’ Syndrome” nel 1987. Su questo ho usato il termine di “effetto Suv” per descrivere un’attività medica così succube delle infinite possibilità che le danno il laboratorio e la farmacologia, che arriva ad una iper-prescrizione e a un overtreatment senza nemmeno rendersene conto. Con l’automatismo per cui alla febbre si dà l’anti-febbre e per buona misura anche l’antibiotico e il mucolitico… hai visto mai! Seguire la routine, restare ancorati al proprio orticello di conoscenze, al “si è sempre fatto così”, non esplorare e non innovare la propria pratica con quello che l’evidenza scientifica offre, non mette al riparo da errori e al massimo garantisce la mediocrità. E distrugge il pathos e il gusto del curare davvero.
Certo, restano sacche di resistenza e, come per fortuna ti capita di trovare un docente bravo per tuo figlio dentro il mare magnum dell’omologazione scolastica, così ti capita di trovare un medico che sa guardare quei tre-quattro metri più in là. Il fatto è che la maggior parte dei medici sono bravi tecnici, ma essere bravi tecnici non basta. Occorre qualcosa di più, che negli ospedali tramutati in aziende, nel contatto con i malati tramutati in clienti non è però funzionale, non rientra nei punti del budget che misurano l’efficacia di un reparto. Occorre un passo in più della buona tecnica, come spiegava una serie di articoli apparsi sul British Medical Journal sotto il titolo “Why are doctors so unhappy?”. Occorre capacità di cooperare, di empatizzare e creare legami per vedere oltre l’immediatamente visibile.
In questa medicina senza pepe, i medici reclamano il loro ruolo, vogliono uscire dalle ristrettezze dei tagli alla sanità e dalle angustie della burocrazia. È come se dicessero: “Con il Covid ci avete chiamati eroi, ci avete dato una bella medaglia e una pacca sulla spalla e poi… non vi accorgevate che stavamo male noi!”. Perché? Perché fare il medico è essenzialmente un’avventura, non un “posto”; quando diventa “un posto”, alla fine crea burnout, insoddisfazione, fuga.
Parlavo in questi giorni ad un congresso sulle malattie rare, e ho ricevuto molti consensi quando ho detto che la sanità oggi, non solo in Italia, è a misura dei pazienti “normali”, cioè quelli che possono dialogare, interloquire, reclamare, e soprattutto non è a misura di quelli che queste caratteristiche non le hanno. Sulla rivista Lancet si leggeva poco tempo fa che le persone con disabilità mentale, cioè quelle che non sanno spiegarsi adeguatamente, “sono invisibili alla sanità pubblica”. Certo, ci sono eccezioni; ma lo stesso discorso si può fare per quelli che non hanno scritto in fronte che malattia hanno, come i malati delle oltre 7mila malattie rare, cioè quelle per le quali non c’è vantaggio economico per le ditte farmaceutiche a investire sui farmaci, e che sono costretti ad altre odissee perché troppi medici sanno bene il loro mestiere, ma limitatamente all’area di ultra specializzazione.
La medicina allora è perlopiù una medicina dell’uomo medio, una medicina di chi si sa gestire, una medicina dei meno malati, diremo paradossalmente o almeno dei malati che hanno “la diagnosi in faccia”, parafrasando Fabrizio de André. Basti pensare che lo sviluppo dei farmaci viene fatto su campioni di pazienti per l’appunto “medi”, che non guarda ai bisogni specifici di genere e tantomeno ai bambini, ridotti spesso a usare i farmaci sperimentati sugli adulti e non sui loro corpi in evoluzione; cosicché le ovvie istanze di una farmacologia mirata alle specificità di genere, di minoranze e di età quasi non esiste, dato che tutto è centrato su un tipo medio inesistente di paziente.
È una medicina banale? Certo non aiuta a guardare in maniera costruttiva e creatrice a nuovi orizzonti. D’altronde l’appiattimento delle differenze serve a rendere i processi più rapidi, a non rendere necessario il ragionamento ma piuttosto l’esecuzione; il tutto funzionale ad una società industriale fatta per il consumatore medio, per l’impiegato medio, a vantaggio del centro di produzione e gestione, seguendo i canoni ben illustrati da Ivan Illich nel suo Gender. Per una critica storica dell’eguaglianza (Beat Edizioni).
Quindi, sì, paghino di più i medici e ne assumano di più, se li trovano, ma bisogna rifondare la figura del medico. L’immagine di medico a contatto col disagio fa fuggire gli impigriti; così come l’immagine di medico-burocrate, perso tra Drg e prescrizioni in serie fa fuggire i benintenzionati. Ma per questo occorre rifondare la base etica della società, appiattita a livelli impiegatizi se non peggio, come spiegano vari filosofi, da Gunther Anders ad Heidegger e a Umberto Galimberti. Quest’ultimo sostiene che per gli insegnanti occorrerebbe fare un test attitudinale prima di mandarli nelle classi scolastiche, per non mettere a contatto gli studenti con persone che non sono portate. Lo stesso dovrebbe farsi per i medici: i quiz di intelligenza all’esame di accesso all’università dovrebbero essere sostituiti da test attitudinali molto severi. Provate a fare questo e ad aumentare la motivazione dei medici non con i soldi ma con l’allettamento culturale: Berry Schwartz, un famoso sociologo, nel suo libro Why we work spiega bene che per ottenere un buon lavoratore non serve migliorargli le strutture o lo stipendio, ma occorre motivarlo nel profondo legame che si è rotto tra le sue virtù e il suo comportamento.
Detto ciò, credo che tutto sia una lontana utopia. Andrebbe ricostituito il modo di reclutare le dirigenze mediche, e andrebbe ricostituito un modo di pensare sociale, che oggi come oggi rispecchia una società allevata a spettacoli video e arte pensati a prima vista per un’età mentale media di dodici anni, privo di afflato solidale e privo di aggregazioni intermedie, quelle che fanno crescere l’uomo.
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