In un mondo di dati e di algoritmi che debordano in tutti i campi occorre garantire spazi allo storytelling. Anche a scuola. Ce lo spiega Alberto Bordin, scrittore, insegnante e formatore in un volume fresco di stampa dal titolo L’o1sso del racconto. Fiabe & sussurri: guida didattica per la scrittura creativa. Per Bordin, infatti, lo storytelling non è un’inutile moda del tempo, ma un contributo allo sviluppo delle capacità di apprendimento, di memoria, di immedesimazione, di consapevolezza di sé, di autostima, di esperienza.
“Lo storytelling – spiega Bordin – è solo una parola difficile per dire qualcosa di semplice, ossia ‘raccontare storie’; ma introduce un metodo nuovo di guardare alle storie. Finora infatti la letteratura della narrazione ha usato un approccio antologico. Si studiava ‘la storia della narrativa’, le fasi dei suoi sviluppi, le mode. Ma questo è un processo cumulativo, ci dà molte informazioni ma non esaurisce la domanda di significato: cosa sono le storie? A cosa servono? Lo storytelling invece parte da una premessa formidabile: tutti i racconti funzionano alla stessa maniera. Non serve studiare tanto i racconti quanto il racconto, l’archetipo originale”.
Ti riferisci al “cerchio narrativo”. Puoi spiegare in breve di cosa si tratta?
Il cerchio narrativo è “lo scheletro”, lo schema alla base di ogni racconto. Come un anatomista studia il corpo umano, così lo storyteller studia la struttura eterna di tutti i racconti. E le fiabe sono la forma più pura del racconto.
È per questo che lo storytelling è significativo tanto per gli adulti quanto per i bambini?
La metterei al contrario: siccome lo storytelling è significativo per i bambini, lo è anche per gli adulti. “Se non lo sai spiegare a un bambino di 6 anni, vuol dire che non lo sai”: questa frase di Einstein mi è sempre rimasta in testa, perché penso valga anche al contrario: “se è vero per un bambino allora è vero anche per un adulto”. Quello che mi affascina delle storie, e in particolare delle fiabe, è che sono adatte ai bambini, comunicano “fino al bambino”. E allora non c’è più alcuna barriera, culturale, sociale, di genere.
Nella guida didattica tu scrivi: “Il valore delle cose non sta nella scienza, ma nella conoscenza”. Cosa significa?
Argomentone. Provo a spiegare in breve. Quando facciamo esperienza delle cose percorriamo sempre due fasi: prima la conoscenza, che è un incontro, e poi la scienza, l’idea delle cose. Per esempio, io prima mi scotto (conoscenza), e poi dico “Ah, questo è il fuoco e brucia, e non metterò più la mano al suo interno”. Ne è nato un giudizio, una scienza del fuoco.
Quindi?
Quindi noi vogliamo dare quella scienza agli altri per evitare loro la fatica della conoscenza: non vogliamo che si scottino! Ma c’è un problema: il valore delle cose, il perché sono importanti e urgenti, lo si scopre nello scontro con le cose. È per questo che nascono le storie. Invece di spiegare la vita, la raccontiamo, entriamo in un viaggio di esperienza virtuale. Perché le storie servono a ridare conoscenza alla scienza.
Perché dici che le storie sono “viaggi di dolore”?
Siccome vogliamo risparmiare il dolore ai nostri cari, noi prendiamo un fantoccio, l’Eroe del racconto, e facciamo accadere a lui un sacco di cose terribili. Vorreste mai essere nei panni dei protagonisti delle vostre storie preferite? L’esperienza, il cammino per crescere e diventare grandi è sempre un parto. La trasformazione è una resurrezione; ma prima è necessario morire.
Scrittori di storie si nasce o si diventa?
Ci sono persone più inclini alla matematica di altre, ma questo non significa che la matematica non sia per tutti. Per questo la studiamo a scuola, è uno strumento intelligente per vivere. Così è lo storytelling: non tutti hanno l’inclinazione a scrivere. Ma tutti hanno storie da raccontare, a partire dalla propria. La vita è storia, è esperienza. Tutti abbiamo bisogno di imparare a raccontare e raccontarci.
(Rosario Mazzeo)
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