Quando scompare uno come Ciriaco De Mita è davvero un’epoca che se ne va. In realtà se ne era andata da un pezzo, ma fintanto che rispuntava ogni tanto, immutabile, a dire la sua, con la sua caratteristica inflessione, tanto chi lo detestava, tanto i suoi fans, più di tutti i molteplici imitatori di cui ha fatto la fortuna, potevano parimenti convenire che non tutto era perduto, prima o poi sarebbero rispuntati, magari, pure Craxi e Andreotti, Reagan e Gorbaciov e si poteva ricominciare daccapo, come ai bei tempi, quando Nusco era capitale d’Italia e l’Avellino era in serie A.
Solo oggi capiamo con chiarezza che quell’epoca se ne è andata davvero, e ci troviamo a chiedere: ma chi era davvero questo leader che per quasi un decennio è stato l’uomo più potente d’Italia?
Era uno che si era fatto da sé, innanzitutto, non avendo dietro nulla di nulla, non una famiglia ricca, non una grande città a spingerlo in avanti, non qualche potentato economico. Ricordava sempre che la sua fortuna era stata aver incontrato qualche prete “che credeva in Dio”, come il direttore dell’Augustinianum, il collegio che come studente meritevole gli offrì una borsa di studio alla Cattolica, don Mario Giavazzi, e il vice don Filippo Franceschi. Fu lì, a Milano, che conobbe Giovanni Marcora, il fondatore della Sinistra di base, la corrente di cui De Mita sarà leader per circa vent’anni, fu lì che conobbe quello che sarà il suo braccio destro, il cosentino Riccardo Misasi. La sua proverbiale arroganza era in realtà un tratto un po’ ruspante della sua simpatia, che alimentava un inesauribile filone di pungente ironia. A proposito di preti credenti, l’ho visto più volte far segno di no con il dito indice per sostenere che questo o quell’alto prelato, ne era certo, non credeva in Dio.
Non lo diceva per autodefinirsi lui un gran credente, ma perché poco apprezzava quando una persona dedita per vocazione alla cura d’anime si interessava, facendo invasione di campo, della disciplina di cui si riteneva dominus assoluto, la politica. Una disciplina che lo ha visto arrivare al passo di addio ancora in sella, da sindaco del suo paese, che lo aveva rieletto di recente. La sua gente, che oggi in cattedrale lo saluterà per l’ultima volta, lo aveva votato incurante del fatto che aveva già superato i 90 anni.
Pigro, difetto che lui era solito abbinare all’intelligenza (era capace di impiegare lunghe ore della giornata nel gioco del tressette) era abilissimo nella selezione delle persone che avrebbero dovuto fare squadra con lui. Astri di prima grandezza come Romano Prodi o Sergio Mattarella (che oggi sarà a Nusco per i funerali) debbono a lui l’ingresso da protagonisti sulla scena politico-istituzionale. Come tanti, a migliaia debbono molto a lui, nell’epoca in cui anche un movimento di un suo sopracciglio poteva giovare alla fortuna o alla sfortuna di qualcuno. E poco importa se presto arriva l’ingratitudine, che una volta definì “uno dei sentimenti più naturali che vi sia, in quanto rimanda all’atavico desiderio dell’uomo di affrancarsi dalla schiavitù”.
Circa la presunta rivalità con Cl che ebbe, nella fase più splendente del suo astro, sono testimone del fatto che non c’era nulla di preconcetto, anzi. Ma solo episodi, che scatenarono una brutta turbolenza. Fu un brutto momento, le guerre non dovrebbero mai scoppiare perché poi alla fine ognuno ricorda solo le “bombe” cadute sul proprio territorio, non altro.
Ma presto tutto rientrò e rimase solo l’ironia. Una volta mentre giocava a carte finse di arrabbiarsi con il suo compare: “Ti sembra questo il modo di giocare? Sembri Renato Farina!”. Chissà che cosa avrà pensato l’anonimo interlocutore nuscano certamente ignaro del nome del giornalista, mentre io che ascoltavo avrei dovuto riferire allo stesso, era questo il messaggio in codice, che aveva sbagliato un articolo su di lui.
Da avellinese dico oggi che tutta la campagna sull’Irpiniagate mi è parsa ingenerosa e platealmente strumentale, essendoci di mezzo una tragedia, il terremoto, che aveva riguardato, quella sì, un’intera Provincia, mentre le ruberie, se vi furono, e vi furono, le portarono a termine tutte le province di due intere regioni, per non dire di predoni venuti dal Nord a caccia di contributi, mentre chi era in buona fede, cito per tutti la Ferrero e la Zuegg, vennero per valorizzare le primizie della zona (dalle nocciole alle albicocche) per farci Nutella e confetture che ancora oggi danno tanto lavoro, in fabbrica e nei campi.
Sono fra i pochi testimoni dei noti fatti della Cascina secondo la sua versione, me ne ha parlato decine e decine di volte, come un’ossessione che si può avere solo per una realtà che ti sta a cuore, sotto sotto. Non entro nel merito. So solo che quando mi fu chiesto proprio da chi ci aveva litigato di invitarlo al Meeting non si fece pregare. Ricordo che quel giorno, si era in campagna elettorale, come al solito non mi chiese nulla, solo si sincerò, con la penna in mano, quale fosse la mia laurea e se avessi un istituto di credito di preferenza (ero consigliere comunale ad Avellino). Lusingato, confesso, dissi che non era quella la mia strada e mi avrebbe fatto più contento se veniva al Meeting dai miei amici, cosa che fece, per partecipare alla nascita di una corrente, l’Alpoca (qualcuno ricorderà) durata lo spazio di una giornata, ma che fece discutere per l’idea che conteneva di un patto fra tutte le forze politiche. Il flemmatico Forlani mostrò scetticismo, lui ci fece semplicemente uno dei suoi celebri “ragionamendi”. Al ritorno gli chiesi come era andato, e naturalmente non mi diede soddisfazione, mi disse che Zoff (suo figlio al tempo era dirigente della Lazio) lo aveva preso in giro per quella sua apparizione a Rimini, e finì lì.
Anche su Assago, il celebre incontro di chiarimento organizzato da Bruno Tabacci (con il quale ne abbiamo parlato di recente) con don Giussani io do una lettura meno negativa di quelle correnti. Anche lì fece uno dei suoi “ragionamendi”, figli di una idea di “primato” della politica che non è statalismo ma rimanda a un senso della comunità, di cui parla sempre anche Mattarella, e a una concezione figlia dell’articolo 3 della Costituzione, caro anche ad Aldo Moro, in virtù del quale gli uomini sono, sì, tutti uguali, ma tocca alla politica evitare che qualcuno sia più uguale dell’altro, “rimuovendo gli ostacoli” che impediscono la piena fruizione a tutti di una vera libertà dal bisogno. Così, nel pieno della “guerra”, nulla impedì che il suo ministro più fidato, Salverino De Vito, con la legge 44 sull’imprenditoria giovanile desse luogo a un tale numero di nuove opere da rendere necessaria una Compagnia. È storia. La Compagnia delle Opere è nata proprio in questa fase.
Così come ho avuto il piacere di presentargli Walter, il pentito che da ragazzo aveva frequentato Cl, e poi era finito nelle Br per un breve periodo, e da collaboratore di giustizia aveva contribuito a scoprire il brigatista Antonino Fosso che preparava nel 1988 un attentato contro De Mita, da capo di una cellula brigatista di Roma. De Mita a Nusco ha ascoltato per tre ore il suo racconto senza fiatare, credo che nessun essere umano ci fosse riuscito prima, con lui.
Più di recente una volta in Transatlantico, al cospetto di un capannello in cui nessuno sapeva chi fossi io, si mise a tessere miei elogi dando luogo a scenari esilaranti di politici come Ugo Sposetti, o colleghi come Carlo Panella che non riuscivano a capire di chi stesse parlando. Quando gli dissi, una volta, che mio nonno comandava la stazione dei carabinieri a Nusco vidi d’improvviso accendersi una luce nei suoi occhi. Un lampo, un ricordo di bambino: “Allora, tua madre si chiama Liliana”. Rimasi di sasso. Si era ricordato di una manfrina risalente a quando lui aveva sì e non 6 o 7 anni e mia madre 4 o 5. Una scappatella che gli valse un brutto rimprovero: “Quella è la figlia del maresciallo!”, gli dissero. Il mio direttore Marco Tarquinio era venuto ad Avellino per parlare di un gran sacerdote, don Michele Grella, scomparso 11 anni fa, grande amico di De Mita (“non perché la pensavano allo stesso modo – diceva – ma perché credeva in Dio”) su invito di un bravissimo medico di Avellino, Gennaro Bellizzi, scomparso di recente per un arresto cardiaco, lui che era cardiolologo e anche bravo. Mentre Tarquinio sta parlando, a un certo punto vede un mezzo trambusto in prima fila. “Dov’è, dov’è?”, era De Mita che si era alzato in piedi quando gli ho detto che c’era lì anche mia madre, e poteva salutarla dopo quasi 90 anni.
L’uomo che molti consideravano antipatico e un po’ arrogante, in realtà era una persona semplice e simpatica, attento alle cose minime, come incurante dei potenti se decideva. Quando ti dava retta a lungo non sapevi mai se era per reale interesse a te o per menarla in lungo per disinteresse verso chi veniva dopo. Luigi Baruffi, ex responsabile organizzativo andreottiano, mi raccontò di esser rimasto sorpreso una volta dallo strano interesse mostrato verso di lui da De Mita, che si sincerò della famiglia, del suo lavoro, delle sue ferie e quant’altro. Quando uscì e vide nell’anticamera ad attendere Silvio Berlusconi, al tempo impegnato a difendere le sue tv, capì le ragioni di tanto prolungato interesse.
De Mita era così: tanto simpatico e ironico da vicino, almeno quanto da lontano poteva apparire antipatico e pedante. Arrogante sì, lo era, ma era in fondo una componente spiccata della sua simpatia. Ci mancherà.
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