De Mita, don Giussani e il potere

Nel 1987 don Giussani venne invitato dalla Dc lombarda. Tenne un discorso scomodo per la stessa Dc. La Dc è morta, la lezione di Giussani no

Della figura di Ciriaco De Mita, icona dell’ultimo decennio della Dc e della prima repubblica, si ricordano la rivalità con Craxi, Andreotti e Forlani e il favore di Eugenio Scalfari, dei grandi imprenditori e degli intellettuali e dei leader del “cattolicesimo democratico”.  Gli uni e gli altri dettero fiducia al suo progetto di “rinnovamento” della Dc, i primi sperando che fruttasse efficienza nell’azione di governo, i secondi vedendovi uno spazio di collaborazione o di partecipazione coerente con la loro visione delle cose.

C’è però un’altra cosa che meriterebbe di essere ricordata e considerata nella sua valenza storica: ed è il confronto (a relativa distanza) tra De Mita e la “sua” Dc e don Luigi Giussani, che ebbe luogo il 6 febbraio 1987, quando don Giussani accettò l’invito a partecipare all’Assemblea della Dc lombarda, il cui leader voluto da De Mita era Bruno Tabacci. Giussani disse cose assolutamente differenti dal registro consueto di quel tipo di dibattiti: finché c’era la Dc il tema era il rapporto fede-politica, o Chiesa-partito, o militanza ecclesiale-militanza politica. Don Giussani parlò invece di uomo e potere. Non che il primo registro fosse sbagliato o che il problema non fosse da porre, ma facilmente si risolveva nella definizione dei ruoli rispettivi di due sfere, quella ecclesiale e quella politica, nessuna delle quali interrogava seriamente sé stessa circa il proprio scopo ultimo. Insomma, una roba a ben vedere un tantino clericale, che non sembra aver saputo affrontare i tempi.

Nessuno metteva a tema il potere (e a dirla tutta, neanche la fede). Perché Giussani sì? Ci aiuta un episodio narrato nella biografia di Alberto Savorana, Vita di don Giussani (Rizzoli, pag. 730 e segg.): a un raduno (“religioso”, non politico) degli universitari di Comunione e Liberazione, nel 1986, fece cantare Ho visto un re di Enzo Jannacci, che finisce con “E sempre allegri dobbiamo stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam”. “Coloro che hanno il potere – commentò don Giussani – diventano tristi se ti vedono piangere… è di grande attualità questa canzone perché ognuno di noi può cedere di fronte a una modalità di conduzione della società in cui diventano ovvi il limite e il soffocamento dentro il quale la nostra umanità è resa sempre più prigioniera, sempre più insepolcrata… Perché è dal cuore che l’umanità deve scoppiare”.  Una passione per l’umano, ecco perché porre la questione del potere.

Mesi dopo, ai politici democristiani Giussani non andò a dire cose diverse: la politica non può non trattenere come preoccupazione fondamentale l’uomo; l’uomo che guidato dal senso religioso ad esprimere le sue esigenze e la responsabilità rispetto ai valori, si trova a fare i conti con il potere. Il quale o è determinato dalla volontà di servire l’uomo, la cultura e la prassi che ne deriva, oppure tende a ridurre la realtà umana al proprio scopo. In questo caso deve governare gli stessi desideri dell’uomo, le sue esigenze, i valori. Producendo uno smarrimento del desiderio da cui ha origine il disorientamento dei giovani e il cinismo degli adulti. Il senso religioso, il cuore profondo degli uomini, spinge a mettersi insieme e non per l’effimero tornaconto; nascono movimenti dal basso che creano, agiscono, fanno socialità, opere, non possono stare fermi. Sono l’io libero in azione. No quindi al primato dello Stato sulla società; no alle mani dei partiti sulla libera espressione della società. Il principio di sussidiarietà, caposaldo qualificante della dottrina sociale della Chiesa, viene tolto dagli archivi della nozione scolastica, rivitalizzato e lanciato nel discorso pubblico. Anni dopo la parola “sussidiarietà” entrerà nella Costituzione (che già ne conteneva il concetto). E oggi essa appare anche a politologi attenti di diversi orientamenti culturali una dinamica necessaria e feconda per la vita sociale (si pensi al Terzo settore) e per il contrasto alla crisi della democrazia che dal crollo della prima repubblica in poi si è solo aggravata.

Tabacci confidò che di quel giorno, il giorno di Giussani ad Assago, ricordo proprio il suo “richiamo alla politica a non rinchiudersi in sé stessa”. A De Mita invece saltò la mosca al naso: il giorno dopo nella stessa sede e in occasioni successive criticò la posizione di Giussani la quale a suo dire “salta il valore della politica per tradurre nel concreto le grandi idealità… fuori dallo Stato vincono sempre gli interessi più forti, … la presenza libera dei movimenti cattolici nella società è una risposta sbagliata”.

Questa concezione del partito realizzatore supremo degli ideali e dei movimenti dal basso come fattori di disturbo appare l’esito finale di una posizione culturale che ha prevalso nel cattolicesimo intellettuale e nella Dc. Non a caso.

Il politologo Giorgio Galli, nel suo Mezzo secolo di Dc (Rizzoli 1993, pag. 338), darà un giudizio piuttosto impietoso: “De Mita intende rinnovare la Dc nel senso di farne un partito monocratico, sotto la sua guida, anziché un partito oligarchico, gestito dai capicorrente, signori delle tessere. Punta su questo obiettivo con scarso interesse per i valori cristiani, per l’efficienza governativa, per le questioni di lottizzazione”.

Probabilmente è una semplificazione troppo polemica e ingenerosa. La posizione di De Mita versus don Giussani è anche indizio, o se vogliamo esito estremo della cultura del cattolicesimo-democratico del secondo Novecento. Il quale, secondo Baget Bozzo, si rifaceva a un’interpretazione discutibile di Maritain, che ne faceva (indebitamente) “l’ideologo della democrazia come realizzazione del cristianesimo” e questo “ha inciso sull’essenza politica della Democrazia cristiana… e ha condotto a fare del cristianesimo una corrente della democrazia e della democrazia il contenuto politico del cristianesimo. Il risultato è che la democrazia non ha avuto per la Democrazia cristiana altra finalità che sé stessa” (Cattolici e democristiani, Rizzoli 1994, pag. 11).

Questa posizione ha tenuto il potere per mezzo secolo. Palesemente ha fatto il suo tempo. Quella di don Giussani, francamente no. È una radice non ideologica, che va ripresa, curata e fatta fruttare.

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