L’esplosione della modernità nell’Occidente degli ultimi secoli rimane prigioniera di un pregiudizio ostinato. In un immaginario largamente condiviso, la si legge in primo luogo come l’esito di una frattura, che ha introdotto una discontinuità demolitrice nel flusso dello sviluppo storico. Il suo balzo in avanti viene fatto coincidere con la crisi della coscienza europea tardosecentesca e settecentesca. Qui si colloca il bacino di alimentazione dei fermenti più corrosivi che hanno finito con il mettere sotto accusa i pilastri culturali e politico-giuridici del cosmo dell’Antico Regime, provocandone un ripensamento sfociato in una stagione di intense riforme antitradizionaliste. Una volta che ci si trovò lanciati su questo piano inclinato, cominciò a incrinarsi la staticità sacralizzata di una “forma del vivere” presto investita dai venti di tempesta della Rivoluzione. Solo parziale fu, in seguito, il recupero delle forze di sostegno del vecchio mondo favorito dalla sconfitta del progetto rivoluzionario e dal passaggio all’età della Restaurazione. Il cambio di rotta si attestò come una scelta senza più ritorno.
Coinvolta in prima fila nella contestazione, la coscienza religiosa subì un duro colpo. Sentendosi accerchiata, abbandonata da tanti che fino ad allora avevano agito come suoi più o meno convinti paladini, si trovò esposta alle insidie di una evoluzione su cui non era più in grado di interferire con piena efficacia. Cominciando dai suoi vertici di governo, fu spinta a schierarsi sul fronte della reazione. Combatté aspramente le manifestazioni in cui si traduceva il delinearsi del pensiero moderno, assottigliando sempre di più i fili di connessione che legavano il mondo della Chiesa e il suo ceto intellettuale ai leader degli orientamenti di matrice illuminista così come ai protagonisti delle successive metamorfosi che a essi si annodarono.
Il divorzio crebbe in modo esponenziale dagli anni estremi del Settecento in poi. Prevalse la delegittimazione indiscriminata delle istanze di rinnovamento del pensiero laico. In alternativa alle sue parole d’ordine, si incrementò il desiderio di rivincita proiettato più sul ripristino forzato di una disciplina collettiva in via di erosione che non su un nuovo incardinamento della fede tradizionale nella cornice di un vero e proprio cambiamento d’epoca.
La lacerazione, protratta fino agli inizi del Novecento, non incontrò smentite risolutive se non a seguito delle svolte dell’ultimo dopoguerra; svolte che hanno conosciuto un momento cruciale di messa a fuoco e di rilancio su scala generale solo in coincidenza con la stagione del Vaticano II e le sue aperture in una nuova direzione. Solo allora, come in anni recenti ha brillantemente puntualizzato Benedetto XVI, è diventato possibile per la coscienza cristiana pronunciare un “sì fondamentale” rivolto “all’età moderna” (discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005), senza che ciò significasse sottovalutare, d’altra parte, le sue “interiori tensioni e anche le [sue] contraddizioni”.
Questo cambio di atteggiamento ha creato le condizioni per il superamento dello scontro tra la fede e il mondo moderno, tale per cui “apparentemente non c’era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa”, come tendeva a suggerire la prospettiva diventata dominante nella Chiesa arroccata in difesa del XIX secolo, ostile ai richiami attraenti del liberalismo allora in fase di crescita vigorosa.
In un altro pregevole contributo sempre del 2005, Joseph Ratzinger aveva già proposto un’acuta riconsiderazione del percorso che ha condotto alla genesi della modernità postilluminista. Si tratta della conferenza tenuta a Subiaco l’1 aprile 2005, in occasione della consegna del premio San Benedetto per la promozione della vita e della famiglia in Europa (ora in Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, La vera Europa. Identità e missione, introduzione di papa Francesco, Cantagalli, 2021, pp. 235-247).
Alla vigilia di essere eletto papa, Ratzinger riconnetteva una serie di dati oggettivi che aiutavano a cogliere l’anima profonda del movimento di sviluppo della storia più recente dell’Occidente, chiarendo in quale senso la necessaria vigilanza critica contro i rischi di involuzione dell’ultima modernità non ha più davanti a sé l’obbligo di un puro e semplice «rifiuto» degli approdi a cui la coscienza cristiana è stata messa di fronte nella realtà del presente. Il punto di avvio è il rilievo che “il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione del Logos, come la religione secondo ragione”. I “suoi precursori” li ha individuati, in primo luogo, non “nelle altre religioni” che gli preesistevano, ma “in quell’illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada delle tradizioni per volgersi alla ricerca della Verità e verso il bene, verso l’unico Dio che sta al di sopra di tutti gli dèi”. “In quanto religione dei perseguitati, (…) religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli”, nella sua struttura originaria la coscienza cristiana “ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede”.
Se l’apertura verso una posizione di difesa del valore della persona umana e dei diritti supremi della rivelazione del Logos va riconosciuta inscritta nel patrimonio costitutivo del cristianesimo, allora ne discende che la si debba vedere come una sua cifra irrinunciabile: il cristianesimo “ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità”. “In questo senso – qui si arriva al punto cruciale – l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana”.
È vero che, lungo i faticosi tornanti della storia, questo fondamento “illuministico” si è annebbiato, conducendo il cristianesimo, “contro la sua natura”, a diventare “tradizione e religione di Stato” e a mettere in ombra la potenza chiarificatrice della ragione, che ha finito per essere “troppo addomesticata”. Meritorio è stato perciò, proseguiva Ratzinger, il ruolo esercitato dall’illuminismo moderno in quanto movimento di pensiero dell’Europa sei-settecentesca, trasmesso poi in eredità alla cultura contemporanea: nello stesso momento in cui attaccava i lati più discutibili (e di fatto riformabili) dell’innesto della fede in un regime di cristianità globale, la critica illuminista ha di fatto riproposto “valori originali del cristianesimo” e ha “ridato alla ragione umana la sua propria voce”. L’ancoraggio allo spalancamento della ragione e il recupero della libertà del soggetto credente non possono che essere pilastri da reincorporare in un rinnovato dialogo autentico tra Chiesa e mondo; un dialogo in cui tenere ferma la distinzione rivitalizzata tra questi due poli in tensione fra loro e favorire una fecondazione rispettosa della dialettica dei diversi, dentro la solidarietà di una vicenda condivisa.
A lungo questa possibilità di incontro tra uomo credente e uomo moderno è stata negata o pesantemente trascurata. Ma ormai la barriera della incomunicabilità poteva essere scavalcata, lasciando alle spalle le scorie delle diatribe del passato. E qui Ratzinger concludeva la sua analisi ribadendo la centralità del cambio di scenario segnato dalla stagione del Vaticano II: attingendo alla sua linfa si è nuovamente evidenziata la “profonda corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, cercando di arrivare ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti”.
L’impostazione di pensiero rilanciata da Ratzinger è una sfida pacatamente “provocatoria”. Proiettandosi ben al di là dei ritardi e delle pigre chiusure conservatrici di robuste correnti della cultura cattolica del nostro tempo, incita a riscoprire gli elementi di convergenza tra le sperimentazioni di rottura veicolate dall’illuminismo e l’universo antropologico fatto lievitare dall’annuncio cristiano innestato nel declino del mondo antico. Ovviamente la sua revisione del giudizio storico ha suscitato aspre riserve tra i cultori della storiografia accademica specializzata, specialmente italiana, da sempre orientata, in senso contrario, a favore di una marcata accentuazione del dirottamento del senso della storia determinato dalla cesura settecentesca. Ma per fare chiarezza su queste questioni decisive, da cui dipende la comprensione del rapporto che si è stabilito tra il cristianesimo e la genesi della civiltà dell’Occidente, viene ora in soccorso la traduzione della brillante sintesi dello studioso nordamericano Ulrich Lehner sull’Illuminismo cattolico. La storia dimenticata di un movimento globale. Ne avevamo segnalato, su questo giornale, la prima uscita in lingua inglese, del 2016. E ora l’editrice Studium ne ha finalmente reso disponibile (maggio 2022) una bella riedizione per il pubblico italiano, che inaugura una nuova collana dedicata alle “Radici della modernità”.
[Si fornisce qui una prima anticipazione parziale dell’articolo A proposito di ‘illuminismo cristiano’: la storia a lungo trascurata di un movimento ‘globale’, in uscita su “Vita e Pensiero”, giugno 2022.]
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