No, non è una classe di super studiosi. Sono simili ai loro coetanei, identici. Jeans stracciati, playstation, Juve o Milan o Inter, influencer e social media. Fanno parte di una generazione che ha assistito a una serie di eventi traumatici, ignoti alla generazione dei boomers: il crollo del Ponte Morandi, la pandemia del Covid-19 e ora la pace perduta in Europa. Una storia accelerata, imprevedibile e indigeribile.
Che cosa hanno fatto? Resistito, loro malgrado. Quasi ci fosse un “nonostante” più forte e misterioso. E la loro resistenza non è stata con armi, bandiere e ideologia. Si sono battuti con quello che avevano in mano: tecnologia e tenerezza impaurita. Hanno mandato messaggi ai prof, whatsapp e chiesto di parlare o hanno scritto una mail. Si sono fermati dopo la Dad a chiacchierare e buttar fuori le emozioni di un mondo interiore alle prime armi. Hanno confidato la paura per una sorella infermiera, l’angoscia per il nonno malato o la perdita di lavoro per il padre, la stanchezza per la Dad, l’insicurezza esistenziale. Hanno detto con invidia che la loro era una generazione sfigata.
Ma ce l’hanno fatta a tornare in campo, cioè a scuola. No, non per studiare, ma per incontrare, per fame di legami. E subito spot pubblicitario per la Giornata della Colletta farmaceutica, torneo scolastico di dibattito e caffè filosofico. Febbre di vita dietro una mascherina, per incrociare lo sguardo di un altro adolescente e poi giocare a Fattoria.
Poi è arrivata lei: è ucraina. Si vede dagli occhi grigio-azzurro: le piange dentro, sommessamente e con dignità, un mondo. Il giorno in cui è arrivata la sua città ha subìto 61 attacchi missilistici. Il pudore senza parole quel giorno non era lamento o silenzio muto, ma preghiera struggente, quella che ti stringe il cuore.
Non guarda mai il cellulare, anche quando c’è pausa. Il telefonino, infatti, non è un gioco: è la vita, il contatto con un padre lontano. Non si distinguerebbe dagli altri se non per lo sguardo; è nel gruppo, del gruppo. Sembra che ne abbia fatto sempre parte e questo senza neanche una parola sull’inclusione o sull’accoglienza. Quando si parla con lei in russo e si traduce, riprende vita. Finalmente. Vuole imparare tutto.
E poi dopo un mese arriva lui. Gli stessi occhi con una pena, appena sopita da un timido sorriso accennato. Il cubo di Rubik per Nik non ha segreti, perciò fa il fenomeno e va forte anche in matematica. Non si capisce con gli altri, ma tutti gli sorridono, sempre.
E poi si affronta un nuovo compito. Bisogna intervistare gli alunni di origine non italiana della scuola: dialogo interculturale e metodologia della ricerca. Lucia, perciò, intervista Leonid, ucraino, che sta in un’altra classe. Patria, libertà, dovere e fede profonda con frequenza a messa. Lucia scopre un altro mondo e un’altra resistenza. Il suo lavoro ci fa capire così che non si tratta di integrare, ma di imparare dall’altro. E infatti anche Polina impara: non solo la lingua. Che bello poter sgridare, ora, anche lei. Ha finalmente imparato, grazie alle compagne, l’importanza strategica del corridoio. Uno strano momento di normalità che accentua la nostalgia per qualcosa d’altro.
E intanto i ragazzi crescono. Diventano proprio più alti fisicamente. Sono come lei.
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