Entra in vigore con la domenica di Pentecoste la riforma della Curia romana targata papa Francesco e contenuta nella costituzione apostolica Praedicate evangelium, promulgata dal Romano Pontefice all’inizio del suo decimo anno di pontificato, il 19 marzo scorso. La costituzione si inserisce nella serie dei provvedimenti post-conciliari che, prima con Paolo VI e poi con Giovanni Paolo II, hanno tentato un adeguamento del sistema curiale alle direttrici del Vaticano II.
Nella fattispecie sono 34 anni che l’organizzazione centrale della Chiesa risponde alle indicazioni della Pastor Bonus, il documento con cui il papa polacco cercò di razionalizzare i fermenti e i problemi della cattolicità in un’organizzazione che fosse al contempo efficace e aperta, duttile alle novità dello Spirito. Due pontificati dopo le esigenze sono mutate: oggi Francesco si colloca certamente in continuità con lo spirito dei predecessori, ma pone una serie di scelte nuove che non possono essere ignorate.
Anzitutto Francesco sceglie il metodo della sinodalità, parola molto usata nei consessi ecclesiali, ma poco capita. La sinodalità, infatti, privilegia la strada comune alla performance della singola persona. Essere sinodali significa convergere tutti, ognuno secondo le proprie condizioni e capacità, sulla strada comune.
Sinodale è la possibilità data ai laici di dirigere un dicastero della Curia che sia ragionevole rispetto alle proprie condizioni. Tanto per fare un esempio: è difficile che un laico possa dirigere il dicastero dei Vescovi, mentre è auspicabile che possa guidare quello per lo Sviluppo umano integrale o per il Dialogo. Sinodale non significa che tutti fanno tutto o che si fa tutto insieme, ma che ciascuno può e deve contribuire alla strada comune in relazione alla propria storia, alle proprie scelte, alle proprie capacità.
In questo senso l’altra grande scelta di Francesco è la comunione, anche in questo caso non intesa come una generica predisposizione ad essere in armonia o d’accordo con gli altri, quanto ad essere persone di comunione. La persona di comunione è una persona che, nella Chiesa, ha anzitutto un rapporto di comunione con Dio e si lascia interpellare dal rapporto con i fratelli e le sorelle. L’uomo della comunione è un uomo che quindi vive le responsabilità come gratuito servizio. Il Papa ha quantificato questo servizio: cinque anni. Dopo di che la persona che serve la Curia torna a casa. Tu servi la Chiesa e, in cambio, non hai una carriera, ma una strada di cambiamento e di trasformazione interiore: è questa la ricchezza che devi coltivare, altrimenti è solo carrierismo ammantato di servizio.
Certo la persona in questione può essere confermata per un altro quinquennio, ma la condizione è che la scelta abbia senso e che tale riconferma non consolidi un sistema di potere. La convinzione di fondo è che chi guida la Chiesa è lo Spirito, è il Signore.
Il Papa con questa costituzione è come se dicesse che il popolo cristiano deve ritrovare fiducia in Dio, deve uscire dalla tentazione pelagiana dell’autosalvazione e deve incamminarsi sulla via, sempre attuale, della sequela.
E qui, forse, sta il punto centrale di tutto il documento: la missionarietà. Francesco prosegue l’indicazione data con forza fin dagli albori del suo pontificato: ciò che cambia la Chiesa non sono le strutture, ma l’uscire, l’andare, il seguire un Altro che cammina nella storia. Il sogno del Papa argentino, quasi il primo capitolo di un testamento che speriamo sia il più lungo possibile, è che le braccia della Chiesa, le sue attività, siano in sintonia con il cuore della Chiesa stessa, con quell’amore a Cristo che è il criterio di ogni vera riforma. Che la Praedicate evangelium sia realmente riuscita in questo intento sarà la storia e il tempo a dirlo. Questo lungo spazio di vita che è il XXI secolo.
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