Gentile direttore,
non sono un giurista, né avvocato e tantomeno un giornalista. Sono una persona “qualunque”, un “peones” (termine in voga nella Prima Repubblica) della politica e del sociale, che vuole dare un contributo di riflessione sui prossimi referendum sulla giustizia al quale ho apposto la mia firma per la presentazione.
Una sensazione strana mi pervade, di distrazione e disinteresse fra i più e di complice silenzio della politica.
Certo la situazione internazionale contribuisce, oggettivamente, a questo, ma non smentisce quella percezione; e la riduzione, nei pochi dibattiti, al tecnicismo dei quesiti contribuisce a spostare l’attenzione dalla questione di fondo.
È l’occasione “popolare” di mandare un segnale. Magari piccolo e ingenuo come un messaggio dentro la bottiglia e affidato alle acque del mare, sperando che qualcuno lo raccolga e lo legga, ma occorre mandarlo.
Troppi anni della nostra storia, della nostra Italia sono stati influenzati, forse decisi, comunque investiti, da una concezione di magistratura militante, eticamente politica e pubblicamente impegnata che ha oscurato quell’impegno silenzioso, accurato, di tanti uomini e donne che hanno fatto la tradizione giuridica del nostro Paese.
Certo, tentativi, anche recenti, di affrontare questo ci sono stati, timidi magari, segnali di una perdurante debolezza della politica perché, come più volte è stato scritto anche sul Sussidiario, essa non rappresenta o fatica a rappresentare quelle comunità intermedie (dal volontariato al sociale, dall’educazione all’intrapresa) che con mille difficoltà ancora oggi costruiscono punti reali e concreti nei borghi e nei paesi nostri.
Andare a votare e votare “Sì” al referendum è un piccolo e fragile segno su una scheda, ma l’indicazione di una grande esigenza: bisogna cambiare. Politica se ci sei, batti un colpo.
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