Secondo papa Francesco, “andare a scuola significa capire la realtà”. Ha ragione. Vediamo perché.
Lunedì 13 giugno (giorno più, giorno meno, l’autonomia è una grande conquista di civiltà, tanto che lascia libertà di scegliere la partenza, purché si arrivi tutti entro il tempo massimo del 30 giugno) prendono il via gli esami di licenza della scuola secondaria di primo grado, altrimenti nota come media inferiore; mercoledì 22 (ma qui l’autonomia non vale, perché la prima prova arriva a tutti contemporaneamente dal ministero) sarà la volta degli esami di maturità. Nell’uno come nell’altro caso, statistiche alla mano, la percentuale di ammissione sarà più vicina al 100 che al 90 per cento, mentre solo un pallido “zero virgola” (spesso impugnato dai genitori che fanno ricorso ai Tribunali amministrativi regionali, i quali quasi sempre danno loro ragione), riguarderà i bocciati.
Tutto stabilito a priori, tutto saputo e risaputo, tutto scontato prima ancora che le prove abbiamo inizio. Lo sanno tutti, in primis ovviamente gli studenti e, perciò, in larga maggioranza non si affannano certo a “mettersi sotto”, dal momento che il risultato è acquisito a priori; fanno eccezione coloro che intendono iscriversi ad una facoltà universitaria a numero chiuso, dove il voto dell’esame ha un suo peso nel determinare chi è dentro e chi è fuori.
Nessun problema, invece, per i tredicenni, ai quali la “scuola dell’obbligo” regala l’obbligo della promozione. Per tutti vale la regola che solo non presentandosi all’esame (e facendolo senza validi motivi) o presentandosi con la pistola in pugno (ma solo se carica) si viene bocciati. Perciò andare a scuola significa capire che la realtà è questa: che ti impegni a fare se la promozione è certa? L’impatto col mondo del lavoro (per i pochi fortunati che ci arriveranno) sarà, di conseguenza, tremendo perché in quel contesto vigono tutt’altre regole.
Non si capisce, quindi, il motivo per cui la scuola si faccia vanto di preparare a quel mondo attraverso stage, laboratori, incontri con esperti, se non per comunicare un concetto del tipo “adesso ti trattiamo coi guanti, ma poi ti tratteranno coi guantoni”, che dal punto di vista educativo non ha alcun senso.
In questa atmosfera surreale si infilano (e qui generalizziamo, per carità, così che nessuno si offenda) tanti docenti che regalano voti trasformando per magia un 4 in un 6 proprio in sede di scrutinio finale, ma ancor più i presidi, categoria che da quando la normativa li ha trasformati in dirigenti pensano di poter fare il bello e il cattivo tempo (altra generalizzazione, per gli stessi motivi). Il meccanismo è semplice ed è avallato persino dal ministro Bianchi che, nel suo ultimo decreto sugli esami di Stato, detta (articolo 3): “sono ammessi a sostenere l’esame gli studenti che hanno frequentato l’ultimo anno anche in assenza dei requisiti del decreto legislativo 62/2017”. Il quale afferma che si può deliberare la non ammissione alla classe successiva o all’esame conclusivo del primo ciclo con adeguata motivazione del consiglio di classe.
Dunque, la legge c’è, ma è come se non ci fosse, tant’è vero che i presidi (pardon, i dirigenti) ne approfittano subito impedendo, di fatto, che i consigli di classe votino bocciature (non sia mai che un genitore si rivolga all’avvocato e pianti grane). Come? I mezzi o mezzucci sono noti, così come nota è l’arrendevolezza di tanti docenti che finiscono col mettersi in riga per non subirne le conseguenze in fatto di orari di lezione pesanti, incarichi supplettivi e quant’altro.
Qui non si scrive per sentito dire, ma per pluridecennale esperienza e per conferme che giungono in questi giorni da più e più scuole.
In conclusione: la scuola educa (purtroppo) a questa realtà, gli esami (purtroppo) non finiscono mai e le istituzioni (dal vertice romano alla periferia) proseguono (ancora purtroppo) imperterrite sulla strada del non senso. Che non è – lo sottolineo – l’opposto di una scuola che boccia tout court, ma che educa all’impegno, alla fatica e, perdonatemi l’ardire, alla cultura. La vera desaparecida del nostro sistema di istruzione per il quale una riforma sola ormai non basta più.
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