Due brani della Torah mettono in relazione l’amore per il prossimo e lo straniero.
In Levitico 19,18 troviamo infatti il seguente comandamento: “Non vendicatevi e non conservate rancore contro i membri del vostro popolo. Ciascuno di voi deve amare il suo prossimo come sé stesso. Io sono il Signore”.
Poco più sotto in 19,33-34 c’è però una seconda ingiunzione molto vicina a questa sia nel lessico che nella struttura sintattica e dove il prossimo prende le vesti dello straniero: “Quando uno straniero si stabilirà nella vostra terra, non opprimetelo; al contrario, trattandolo come se fosse uno dei vostri connazionali, dovete amarlo come voi stessi. Ricordatevi che anche voi siete stati stranieri in Egitto. Io sono il Signore vostro Dio”.
Ma che legame c’è tra prossimo e straniero? Chi è il prossimo? Chi è lo straniero?
Nello spazio etico che si apre in Levitico 19,18 e 19,33-34, lo straniero che dimora tra gli ebrei è “come” gli ebrei perché essi stessi erano stati stranieri in Egitto. Questa estraneità condivisa costituisce l’unico elemento su cui si può fondare un qualche tipo di solidarietà. È un paradosso: io sono “come” l’altro perché ognuno di noi non è come qualcun altro, e solo questo rende possibile l’etica. In altri termini, il fondamento dell’amore verso l’altro nasce da questo unico punto di affinità, l’essere stranieri a nostra volta, una estraneità interna, profonda.
Come citazione della frase del Levitico il “prossimo” appare, come è noto, nei Vangeli, e in modo perturbante in quello di Luca. Qui c’è un passo famoso nel quale alla domanda, posta da un dottore della legge, su quale sia il comandamento più grande, Gesù risponde di amare Dio e di amare il prossimo come sé stessi. Ma nel Vangelo di Luca questo è anche il brano che introduce la parabola del buon Samaritano.
Si tratta di un testo complesso in cui lo straniero e il prossimo entrano in scena prepotentemente, si mescolano, e che ha sollecitato letture diverse. Ma è proprio la parabola del buon Samaritano che rende la versione di Luca particolarmente interessante. Infatti all’enunciazione del comandamento dell’amore verso il prossimo e l’invito di Gesù a seguirlo, succede, in puro stile rabbinico, una domanda del dottore della legge che sottolinea l’ambiguità di tutti i termini coinvolti: amare, prossimo, te stesso. Cosa significa? Chi è il prossimo? Dove lo incontro? E poi cosa vuol dire amare? E più ancora, cosa vuol dire amare me stesso?
Una risposta imprevista alla domanda viene da Sigmund Freud che, nel quinto capitolo del Disagio della civiltà, discute il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” nel quadro delle rinunce alle pulsioni che la civiltà impone. Freud evidenza la stranezza del comandamento chiedendosi: perché dovremmo farlo? Che bene ne ricaviamo? E soprattutto come ci riusciamo? Se la mia capacità di amare è qualcosa di importante, che ha valore, occorre averne cura. Dunque può meritare il mio amore chi mi assomiglia almeno nelle cose fondamentali. Il comandamento potrebbe allora essere accettato solo nella versione: “Ama il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te”, cioè nella versione narcisistica dell’amore: amo l’altro nella misura in cui l’altro ama me.
Del resto se è già così impegnativo amare chi ci è vicino, chi è simile a noi, ancora più paradossale è pensare di amare il prossimo quando questi è un perfetto sconosciuto: che senso ha allora un precetto di questo genere se il suo adempimento non può essere raccomandato come ragionevole? Freud risponde che il comandamento trova un senso perché nell’essere umano c’è la persistenza di una fondamentale inclinazione all’aggressività, di una primaria ostilità reciproca che è stata barattata per un po’ di sicurezza. Dunque la civiltà vuole legare fra loro i membri della società con tutti i mezzi possibili proprio per salvaguardarla dall’aggressività originaria e per questo rafforza i legami comunitari costruendo delle relazioni di amicizia. Ma questo estraneo, aggiunge Freud, non cessa di essere un nemico più degno della mia ostilità e del mio odio che della mia amicizia.
Lacan in Etica della psicoanalisi commenta questo testo di Freud sottolineando che questi coglie un aspetto centrale: c’è un nucleo traumatico che definisce il rapporto con l’altro, è il trauma causato dal fatto che la presenza dell’altro impedisce il godimento. Questo lo porta a essere una presenza incomprensibile ed enigmatica che non persegue il mio progetto di felicità ma è anzi un ostacolo che vorrei eliminare.
Ma torniamo alla parabola e alla domanda: chi è il prossimo? Ovvero su che piano trovo una possibile relazione con l’altro?
In un quadro del 1890 che si intitola Il buon Samaritano, Van Gogh ci mostra il Samaritano che prende sulle spalle il viandante come prendendo letteralmente su di sé il dolore dell’altro. Non si pone la domanda come vivere il comandamento dell’amore, ben conosciuto dal dottore della legge, ma proprio lui, il samaritano, lo straniero vive nell’esperienza il rapporto con l’altro, l’accompagna. È un samaritano, uno straniero, di un popolo che gli ebrei disprezzano. Appartiene a una comunità che viveva in quello che era stato il Regno settentrionale di Israele. Una comunità con origini ebraiche e pagane che adoravano Yahweh come gli ebrei ma la cui religione non era l’ebraismo tradizionale. Che leggeva la Torah ma con un canone diverso.
Ma anche il viandante derubato è uno straniero a sua volta, di lui non sappiamo nulla, sappiamo solo che il sacerdote e il levita non si fermano, lo ignorano, non lo vedono. Non incontrano il suo volto, è qualcuno che non conta, distante, abissalmente altro nel suo dolore.
Ma a differenza del sacerdote e del levita, il samaritano guarda quel volto e riconosce quel dolore. L’abbandono, la solitudine, l’essere un altro perduto, riconosce che ciò che l’unisce a quell’uomo ferito è che anche lui è straniero quanto l’altro è straniero, e si fa suo prossimo. È lo sguardo di chi, escluso dal mondo, impuro o dimenticato sente su di sé l’alterità non risolvibile. E a quel punto che i due si riconoscono, non sono il nemico, il disturbante, perché l’essere altro dagli altri è la loro comune consistenza.
Ecco che quando Gesù chiede quale dei tre, il sacerdote, il levita o lo straniero, era stato il prossimo per il viandante, la risposta non può essere che una, e la risposta dice che riconosco il mio prossimo se non sono io nella mia soggettività a sceglierlo ma accetto il suo essere straniero perché dà un senso al mio essere straniero.
L’estraneità dell’altro, il suo essere altro dagli altri, dà senso alla mia estraneità, un modo per pensare le relazioni che non si fa scoraggiare dall’alterità, tanto da passare oltre ignorandola, ma comprende che l’io è un’apertura, che si crea a partire dell’incontro traumatico con l’altro: l’io diventa altro, je est un autre (Rimbaud).