Anche questa tornata referendaria ha la sua storia. Questo è normale: tutti i referendum nel nostro Paese – ma probabilmente anche altrove – scontano le condizioni in cui sono celebrati, la classe politica contro o a favore della quale sono stati proposti, l’oggetto cui fanno riferimento i quesiti, il momento storico che una nazione attraversa e molto altro ancora.
Che storia sta narrando questo referendum? È interessante provare a rispondere, invece che lamentare la scarsa affluenza, il silenzio dei mass media, lo scarso impegno dei promotori, i gruppi di pressione che hanno agito, nell’inconsapevolezza dei più. E ciascuno può dire la sua, tanto differenziati possono essere i punti di vista.
In primo luogo si può rispondere che tre anni di pandemia possono aver influenzato l’elettorato. Ci siamo chiusi in casa, abbiamo obbedito, subìto una pressione anche psicologica sul tema della salute, a cui abbiamo sacrificato tanto, anche qualche tratto della nostra religione. Il sistema si è chiuso in sé, ha limitato i diritti, ha preso decisioni dal centro contro una periferia un po’ riottosa, un po’ ribelle, un po’ incapace. Forse questo ha influenzato la nostra partecipazione e rafforzato la convinzione che non vi è rimedio, che il gesto personale non conta, che i riti della democrazia non portano lontano (e forse neanche vicino).
Poi il tema: la magistratura. Tema complesso, quesiti incomprensibili. Dovrebbe essere interessante ma, evidentemente, non ha commosso i cuori, non ha scaldato gli animi, non ha creato solidarietà tra i concordi né guerra tra gli opposti. Tutto sotto silenzio, un silenzio davvero preoccupante per un processo che si pone come occasione per dare in mano agli elettori una decisione, anche una decisione relativamente semplice: dire di sì o di no. Forse non si è neppure fatto il passo minimale per capire che cosa c’è in gioco, anche solo chiedendo a qualche amico esperto o andando a qualche incontro organizzato un po’ all’ultimo. Eppure, chi ci ha provato certamente qualcosa ha portato a casa, quanto meno per sé. Qualcuno, provando a capire, ha fatto un percorso di conoscenza e di consapevolezza.
Ci si può chiedere se anche questa mossa minima sia stata sufficiente: forse è rimasta nell’intimo, nell’attesa di una prossima occasione in cui giocare le nostre carte.
Resta il fatto che, nell’insieme, questi brevi passi non sono stati sufficienti per recarsi alle urne, per mettere una risposta sulle schede, per essere protagonisti di un gesto che è politico, nel senso più sostanziale del termine.
Certo: la politica non gode di buona fama, ma anche questo può essere l’esito di una sorta di imposizione. Chi sarà stato? Inutile buttarla sul complotto, che non farebbe che aggravare la situazione.
Insomma, c’è da lavorare, e molto, per riprendere l’energia verso il senso dell’essere insieme come popolo, un popolo che è “sovrano” e che invece rischia di percepirsi come lontano, sfiduciato come è, fatto di persone tutto sommato isolate le une dalle altre, le cui aggregazioni non scalfiscono. Anche le aggregazioni dunque devono riprendere il senso dei processi a cui sono destinate, quei processi che devono portare ad una crescita o, quanto meno, ad un’educazione del desiderio di capire, di partecipare, di essere; un desiderio che, solo, dà consistenza alla persona. E forse anche alla politica.
Una riflessione pacata ma profonda può essere l’inizio di una strada che, volendo, può aiutare ad uscire dalle secche di un momento difficile ma sfidante. E che ci porti a riconsiderare come anche il nostro quotidiano sia eroico e che l’eroico parte dal prendere sul serio il quotidiano, in tutte le sue infinite dimensioni.
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