A volte, per come se ne sente parlare, vien da pensare che si stia proponendo la figura non di un infermiere, bensì di un segretario o di un tecnico o di un assistente del medico. E poi c’è l’ADI (Assistenza Domiciliare Integrata) su tutto il territorio nazionale, ove meglio, ove peggio, ma ovunque. Sono garantite le medicazioni a domicilio, la sostituzione del catetere vescicale, addirittura le iniezioni sottocutanee. È dunque necessario l’infermiere di famiglia?
Forse si dovrebbe porre questa domanda alle famiglie che accolgono e assistono un congiunto con problemi di salute che ne limitano l’autonomia nelle attività quotidiane di vita. Una persona che magari fa fatica a deambulare anche in casa, e perciò fa fatica a lavarsi, vestirsi, andare in bagno. Una persona che, ad esempio, ha il catetere vescicale a permanenza, o l’ossigenoterapia continua oppure una stomia. In fondo ‘assistenza infermieristica’ significa assistere gli infermi.
Si potrebbe domandare ai familiari di queste persone con problemi di salute se sarebbero contenti di potersi avvalere dell’opera di un infermiere (uno/a preciso/a, sempre lui o lei) che vada a casa ogni tanto, che possa dare consigli sulle modalità migliori per rispondere a questi bisogni, che sia in grado di suggerire i presidi più adatti, che aiuti ad affrontare i piccoli problemi che si possono presentare. In altre parole, un infermiere che prenda in carico l’assistenza alla persona bisognosa nel contesto di tutti i componenti il nucleo familiare, non certo perché assicura la sua presenza ventiquattro ore al giorno, ma perché è in grado di guidare familiari ed altri assistenti.
Come affermava Virginia Henderson, “finché il malato è in ospedale egli rimane in balia dello staff per tutto il tempo del ricovero”, quando è a casa sua deve essere coinvolto e convinto delle cure, così pure i familiari. Occorre capacità di ascolto e di mediazione per trovare le soluzioni migliori per quella persona e per quella famiglia. Ancora la Henderson ci fa riflettere sulla profondità del problema, perché ci si scontra con “la difficoltà o addirittura l’impossibilità di separare le attività che riguardano la salute dal modello totale di vita”.
Consideriamo un esempio. Un uomo anziano, abituato ad andare in bagno durante la notte, può presentare per diverse ragioni difficoltà di equilibrio o di deambulazione, che suggeriscono di evitare che si debba alzare la notte. Ci sono tante possibili soluzioni: il pappagallo accanto al letto, il catetere esterno, il pannolone (per essere fini ‘superficie assorbente’), il catetere vescicale. L’Infermiere di famiglia potrebbe aiutare a identificare la soluzione adatta alla singola persona in quel contesto di convivenza. Certo, in conseguenza, potremo auspicare che possa essere l’infermiere stesso a prescrivere pannoloni o cateteri, senza richiedere al medico di medicina generale di fare il ‘trascrittore’ (ruolo che giustamente non apprezza).
Questo Infermiere di famiglia si deve rapportare con tutti gli altri professionisti sanitari che concorrono alla cura; primo fra tutti il Medico di medicina generale, ma anche gli specialisti, i terapisti della riabilitazione o – laddove ci fossero disturbi psichici – il tecnico della riabilitazione psichiatrica e anche con il collega dell’ADI, il quale – per necessità di organizzazione – spesso si limita all’atto tecnico.
Si tratta solo di ipotesi oppure possiamo già cogliere qualche indizio di risposta alla domanda posta in apertura?
Alcune sperimentazioni sono iniziate. Se le famiglie dimostrano gratitudine a questi ‘infermieri esploratori’ (così li definiamo perché stanno intraprendendo un cammino di cui poche mappe sono disponibili), potremmo formulare l’ipotesi che essi stiano rispondendo ad un bisogno che finora non aveva risposta. Certo, ci saranno molti aspetti da affrontare: il rapporto numerico con la popolazione, la formazione specialistica, la collocazione nell’organizzazione sanitaria (per non parlare del fatto che gli infermieri mancano in senso assoluto a motivo di anni di sciagurata e miope politica del borsellino).
E non riteniamo certo che il ruolo dell’Infermiere di famiglia si risolva nella presa in carico dei malati cronici a domicilio. Potrà intraprendere anche interventi di prevenzione e di educazione sanitaria e terapeutica presso le famiglie, interventi che – come osserva acutamente sempre la Henderson – saranno meglio accolti se sono proposti da un professionista che si è dimostrato competente e disponibile nel momento del bisogno.
Ci si può aspettare che la presenza dell’Infermiere di famiglia riduca gli accessi impropri in pronto soccorso per problemi gestibili a domicilio, quali ad esempio malfunzionamento di catetere vescicale a permanenza o problemi nella gestione di ferite chirurgiche. Agli ‘Infermieri di famiglia esploratori’ l’onere di documentare il contributo che sono in grado di dare.
Una cosa è necessaria: che l’infermiere sia consapevole di se stesso, del contributo che può offrire con la sua competenza professionale. Non possiamo aspettarci che questa consapevolezza ci sia data dagli amministratori e nemmeno dagli altri professionisti sanitari. Qui si parrà nostra nobilitate.
Marina Negri
Andrea Bernardinello
Cristiana Forni
Cosimo Iacca
Sandra Montalti
Giulia Santambrogio
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