L’Italia ha una secolare tradizione nel campo della formazione musicale. Il nostro paese ha visto nascere i primi Conservatori al mondo (Napoli, XVI secolo) e dopo l’Unità ha riordinato le più significative esperienze sviluppatesi negli stati pre-unitari attraverso una serie di decreti (i più importanti del 1918 e del 1930) sostanzialmente rimasti in vigore fino al termine del XX secolo. In sintesi, alla didattica musicale veniva riconosciuta – in linea anche con le storiche pratiche di insegnamento musicale – un’unicità tale da considerare il suo impianto teorico diverso e separato da quello delle discipline degli ordinamenti scolastici e universitari.
In questa visuale ogni materia teorica, o non di indirizzo, veniva considerata “complementare” alla disciplina “principale” rappresentata dallo studio dello strumento, del canto o della composizione. La modalità del “fare” assumeva una preminenza non solo pratica (dato che lo scopo di un corso di violino è quello di saper suonare lo strumento a livelli molto elevati, come richiesto dalla professione), ma anche normativa: l’ordinamento dei corsi di studio (lunghi dai cinque ai dieci anni) si basava su un ristretto numero di corsi di insegnamento (pluriennali), quasi tutti tendenti al raggiungimento degli obiettivi della disciplina di indirizzo. Il voto di diploma dipendeva solo dall’esecuzione pubblica strumentale o vocale svolta nella prova finale. Il fine professionale (per svolgere attività, per esempio, di solista o di orchestrale) era praticamente l’unico a pesare nella valutazione del curricolo formativo. L’insegnamento strumentale, vocale e compositivo (ieri come oggi erogato per lo più con lezioni individuali), assomigliava a quello della bottega rinascimentale, con la figura centrale del “maestro” in grado di “educare” l’allievo soprattutto attraverso il proprio pratico esempio artistico.
La legge di riforma del 1999 (la n. 508, che ha definito l’ambito superiore della formazione musicale, artistica e coreutica) nasce a seguito di riflessioni sorte a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, anche a causa dei radicali cambiamenti che la società, non solo italiana, ha vissuto nel dopoguerra. Oggi la professione di musicista richiede competenze che nei secoli scorsi i Conservatori non potevano considerare: saperi utili sia per la formazione specifica (per esempio l’analisi musicale, divenuta una disciplina autonoma solo di recente), sia per la formazione complessiva della personalità artistica, anche con l’approfondimento di ambiti disciplinari non strettamente correlati alla musica come le lingue straniere, l’organizzazione di eventi, le pratiche di consapevolezza corporea, eccetera.
Ispirato ai princìpi della “Dichiarazione di Bologna” del giugno 1999 l’insegnamento della musica nel Conservatorio riformato ha cercato nel nuovo secolo di seguire modelli propri dell’università. Ne è scaturito, negli ordinamenti, un proliferare di autonomi insegnamenti (diverse centinaia), nell’ottica didattica di considerare la tecnica, che ogni musicista deve possedere per eseguire ai livelli richiesti le più importanti composizioni di repertorio, non solo come esito di una assidua pratica strumentale (guidata dal “maestro”), ma anche come capacità dello studente di rendersi intellettualmente autonomo e in grado di caratterizzare il proprio percorso creativo. Obiettivo, questo, raggiungibile con le conoscenze multidisciplinari acquisite attraverso i vari insegnamenti obbligatori previsti dai corsi di studio.
Inoltre, a seguito dell’aumento degli ambiti occupazionali offerti dalla professione musicale odierna e dalla conseguente esigenza di specializzare le competenze, la riforma ha visto moltiplicarsi l’offerta formativa oggi arrivata, per il solo primo livello (triennio), a settanta differenti corsi di studio (esclusi gli indirizzi).
Il problema dell’insegnamento attuale nei Conservatori consiste nel fatto che il nuovo modello didattico non sempre ha ampliato, come previsto, le conoscenze impartite allo studente utili alla ricerca di una occupazione. Anzi, talvolta il modello è diventato controproducente dal punto di vista professionale. I maestri del passato sapevano che per essere anche un “artista”, come dovrebbe, un musicista non può limitarsi a eseguire lo spartito suonando intonato e secondo quanto richiesto dal compositore. Essi intuivano anche che il “sapere” non è una somma di singole cognizioni tecniche e culturali, ma la capacità di fare una sintesi tra molteplici conoscenze per risolvere problematiche artistiche connesse all’interpretazione o alla composizione musicale. Sotto questo profilo, l’organizzazione ordinamentale dei corsi di studio musicali nel Conservatorio riformato mostra alcune lacune, che investono anche tutto il tema dei docenti e dei dottorati di ricerca.
I modelli di insegnamento e di organizzazione dei Conservatori dovranno allora nel futuro coniugare più efficacemente la grande tradizione didattica musicale (che nei secoli ha prodotto così tanti musicisti/artisti) con le necessità attuali della professione, creando un ambiente in grado di valorizzare la specificità della formazione artistico-musicale, ma al contempo fornendo allo studente le conoscenze veramente necessarie affinché egli divenga artisticamente autonomo.
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