L’11 giugno 2022, Ursula von der Leyen insieme al presidente Zelensky da Kiev ha annunciato che la Commissione deciderà sulla domanda di adesione all’Ue dell’Ucraina: “le discussioni oggi aiutano a finalizzare la nostra opinione entro la fine della settimana prossima. Il vostro è un percorso basato sul merito. Apprezzo gli enormi sforzi e la determinazione che avete in questo processo, gli ucraini hanno dimostrato una forza incredibile. Sono profondamente convinta che, insieme, supererete questa guerra atroce, ricostruirete questo paese”. Ed ha aggiunto: “l’Ucraina è una solida democrazia parlamentare che era già sulla buona strada prima dell’invasione russa. Questa guerra è un enorme stress test. E l’intero Paese si sta rafforzando. Lo stesso spirito è necessario per riformare e modernizzare il Paese. E l’Europa è qui per supportarvi”.
“Questa guerra è uno stress test” e “riformare e modernizzare” sono concetti chiave molto utili per capire il prosieguo di questo articolo.
Non parliamo della guerra. Parliamo di politica e soprattutto di cosa è successo in Ucraina tra il 20 maggio 2019 e il 23 febbraio 2022. Includendo i venti mesi di pandemia, sono questi 32 mesi che hanno cambiato la faccia dell’Ucraina (e la vita degli ucraini), quella russa e quella europea. Cosa è successo? Chi aveva le leve del comando in Ucraina? Come si muovevano i grandi attori internazionali e le grandi potenze? Che ruolo hanno giocato le oligarchie economiche ucraine, russe, europee, turche, inglesi e americane? La corruzione ha tormentato il paese da quando aveva ottenuto l’indipendenza nel 1991. Nel 2021 Transparency International collocava l’Ucraina nella classifica mondiale al posto 122 su 180 indicando “no progress” ma anzi un percepibile peggioramento.
“La mia elezione dimostra che i nostri cittadini sono stanchi dei politici esperti e pomposi che nel corso dei 28 anni (di indipendenza, ndr), hanno creato un paese di opportunità – le opportunità di corrompere, rubare e strappare le risorse”, così diceva il neoeletto presidente Zelensky il 20 maggio 2019, forte del 73,9% di voti, entrando alla Verkhovna Rada (l’assemblea parlamentare ucraina). Con grande shock degli spettatori all’interno della Verkhovna Rada, e il timore reverenziale della folla fuori e che guardava in televisione, Zelensky ha licenziato il parlamento e ha annunciato nuove elezioni che il 21 luglio 2019 hanno premiato il nuovo ed estemporaneo partito di Zelensky, Servo del Popolo – dal nome del suo programma televisivo, in cui interpreta un presidente riformista – che si è assicurato 254 seggi su 423, creando una maggioranza a partito unico per la prima volta nella storia dell’Ucraina.
Nella sua prima sessione, il parlamento ha nominato come primo ministro un tecnocrate di 35 anni, Oleksiy Honcharuk, ben sostenuto da Josep Borrell, capo della diplomazia Ue, che dopo pochi mesi ha scelto di dimissionare e trasferirsi in Usa all’Atlantic Council. La missione internazionale di osservazione elettorale dell’Osce, alla quale parteciparono anche il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare della Nato, ha rilevato che 5 dei 35 milioni iscritti al registro elettorale non hanno potuto partecipare perché residenti in zone illegalmente occupate da gruppi armati o annesse alla Russia, che la trasparenza del finanziamento della campagna elettorale era molto opaco, che i media escludevano il candidato Zelensky il quale sceglieva volontariamente di non apparire in dibattiti pubblici organizzati anche dalla rete pubblica e non conduceva comizi elettorali ma preferiva affermarsi come “comico” in innumerevoli pubblicità, che la legge elettorale vietava ai cittadini russi (“aggressori”) di osservare le elezioni, e che l’ambiente elettorale rifletteva la dominanza di interessi economici nella politica, ma finalmente valutava la conformità del processo elettorale ai criteri dell’Osce, ad altri obblighi e standard per le elezioni democratiche e alla legislazione nazionale.
Il presidente uscente, sconfitto con il 24% dei voti, era Petro Poroshenko che era stato eletto sull’onda positiva della “rivoluzione per la dignità” (EuroMaidan) del 2014. La piazza chiedeva un governo ucraino capace finalmente di domare la dilagante corruzione ufficiale simboleggiata dall’ultracorrotto presidente Viktor Yanukovych scappato in Russia con un bottino di risorse pubbliche. Poco dopo la sua elezione, Poroshenko aveva sciolto la Verkhovna Rada chiamando nuove elezioni legislative per “purificare” gli scranni da elementi legati al suo predecessore. Il risultato diede al partito di Poroshenko il 23%, che formò un’eterogenea coalizione pro-Ue con circa 300 scranni su 450. Unico escluso dal parlamento fu il partito comunista, mentre il pro-russo Blocco di Opposizione, successore del Partito delle Regioni di Yanukovych, ricevette solo l’8%. La missione di osservatori dell’Osce nell’ottobre 2014 ha affermato che il processo elettorale ha rispettato gli impegni democratici dell’Ucraina e ha offerto all’elettorato una scelta autentica. Anche altri osservatori diedero il massimo dei voti alle elezioni. Questa era una buona notizia per la democrazia in Ucraina.
Tutto ciò avveniva mentre sin dal 2008 la Nato forniva assistenza tecnico-militare all’Ucraina – Nato-Ukraine Action Plan – che portò alla reazione russa tra febbraio e marzo 2014 (la Russia intervenne in Crimea che fu poi annessa) e mentre dall’aprile 2014 l’Ucraina aveva lanciato una contro-offensiva militare denominata “operazione anti-terrorismo” nel Donbass (Donetsk e Luhansk oblast) per contrastare i gruppi armati che sostenevano le due autoproclamate repubbliche, portando ad un cessate il fuoco e all’accordo di Minsk nel settembre 2014. L’accordo collassato nel gennaio 2015 portò alla firma nel febbraio 2015 di un nuovo accordo negoziato da Francia e Germania con Russia e Ucraina, Minsk II, che prevedeva una sostanziale riforma costituzionale garantendo una forte decentralizzazione e autonomia del Donbass in cambio della fine del conflitto, la demilitarizzazione dei gruppi paramilitari, incluso il battaglione Azov, e del ritiro delle forze armate straniere in Ucraina.
Minsk II non fu mai realmente rispettato e attuato dalle parti in conflitto. È più volte collassato ed è stato altrettante volte riattivato fino all’ultimo tentativo del gennaio 2022 (formato Normandia) che fu formalmente abbandonato dalla Russia il 22 febbraio 2022 a seguito del voto della Duma (il parlamento russo) che chiedeva al presidente Putin di intervenire a sostegno delle popolazioni e repubbliche russe nel Donbass.
Il presidente Zelensky ha visto velocemente evaporare il suo largo credito elettorale, con sempre più cittadini molto pessimisti e scettici sulle sue capacità di presidente “servo del popolo”: dai sondaggi che a settembre 2019 mostravano il 52% degli ucraini ottimisti e il 18% pessimisti, nel marzo 2020 l’umore si è spostato al 23% ottimista e al 60% pessimista, nel luglio 2020 il numero di coloro che non si fidavano di Zelensky ha superato il numero di coloro che credevano ancora in lui (51% contro 43%). Nonostante questi dati che fanno riflettere, tuttavia, Zelensky è rimasto personalmente il politico con più sostegno di chiunque altro: nell’agosto 2021 il suo sostegno da parte dei probabili elettori era ben oltre il 30%, mentre il suo candidato più vicino per una futura presidenza, Petro Poroshenko, era sostenuto solo dal 13%.
Secondo l’Istituto internazionale di sociologia di Kiev, l’indice di approvazione di Zelensky come presidente è sceso dal 33,3% di settembre al 24,7% di ottobre 2021, separato dall’indice di approvazione di Poroshenko di meno di 10 punti percentuali. Il sondaggio del Centro Razumkov dimostra che Volodymyr Zelensky ha superato Petro Poroshenko e ora ha il più grande “anti-rating” tra i politici ucraini. Che cosa è successo al leader un tempo amato?
Secondo un analista “a metà della sua presidenza, lo stesso Zelensky ha distrutto la sua immagine di politico alternativo”. Ecco cosa ha fatto. Pur non potendo essere considerato un oligarca, almeno come lo erano i suoi predecessori, Zelensky appare nelle liste dei Pandora Papers con operazioni offshore che lui ha spiegato essere necessarie a “proteggere” il suo business televisivo in Ucraina. Prima della campagna elettorale del 2019, Zelensky aveva ceduto il controllo delle sue azioni al suo attuale capo aiutante e capo del servizio di sicurezza dell’Ucraina, ma la famiglia di Zelensky continua a “ricevere denaro dalle operazioni commerciali offshore”. Poco dopo è esplosa la “guerra di Putin”. Zelensky con le felpe militari e l’incessante comunicazione dai bunker chiedendo aiuto, sostegno finanziario, armi, ha dettato l’agenda politico-diplomatica all’Ue e alla Nato, e in misura minore agli Usa e alla Turchia. Un diluvio di dichiarazioni mentre i soldati ucraini e la popolazione morivano e molte città venivano distrutte insieme a molte importanti infrastrutture economiche. Il mantra lo conosciamo: “c’è un aggredito e un aggressore”, “inviateci armi”; “l’Ucraina vincerà”; e, su infausto suggerimento americano “la Russia non può vincere”. Intanto la popolazione totale dell’Ucraina che a luglio 2021 (tutti i residenti a prescindere dallo status legale e/o cittadinanza) era nominalmente di 43,8 milioni ma contava già 6,1 milioni di emigrati (53% in Russia; dati 2020), 2,4 milioni in Crimea/Sebastopoli (Fed. Russa), e 6,6 milioni di rifugiati di guerra (Acnur, maggio 2022), ovvero una popolazione reale probabilmente inferiore ai 30 milioni (il numero dei morti civili/militari e prigionieri è tuttora molto incerto). L’economia ucraina nel 2021 era la 44esima su 45 nella regione europea. Ma che cosa è veramente successo in quei 32 mesi di presidenza Zelensky?
Cerchiamo di capire qualcosa ricostruendo la mappa di chi conta davvero in Ucraina.
Poroshenko era il settimo uomo più ricco d’Ucraina con una fortuna stimata di 1,6 miliardi di dollari e industrie manifatturiere, autotrasporti, banche, media e industria dolciaria (i prodotti di quest’ultima erano molto popolari in Russia). Nazionalista, nel 2015 promulgò una legge che equiparava i crimini nazisti e sovietici assicurando il “riconoscimento pubblico a chiunque abbia combattuto per l’indipendenza ucraina nel XX secolo”, compresi i controversi combattenti dell’Esercito insurrezionale ucraino (Upa) guidati da Roman Shukhevych e Stepan Bandera. Sostenitore della chiesa ortodossa autocefala d’Ucraina, creò il primo ufficio giudiziale anticorruzione (2016) e intervenne con significative riforme del settore bancario e degli appalti. Nel 2014 promosse un piano di pace per l’Ucraina orientale dando un “ultimatum” al ministro degli Esteri russo e proibì ogni cooperazione militare con la Russia, fece votare una legge per abbandonare lo status “non allineato” dell’Ucraina (303 sì, 8 contrari), dichiarò che “l’Ucraina vuole integrarsi alla Nato”, e firmò l’Accordo di associazione con l’Unione europea.
Nel dicembre 2015, Poroshenko incontrò a Kiev l’allora vicepresidente americano, Joe Biden, per discutere della cooperazione ucraino-americana, e lo stesso anno Hunter Biden (figlio di Joe) è stato nominato membro del board della Naftogaz da una compagnia (Burisma) che era stata fondata dall’ex presidente ucraino Yanukovych. Nel 2016, Poroshenko ha attuato le richieste del Fmi e dell’Ue per riformare il gigante energetico Naftogaz che gestisce i flussi di gas russo, e infine nel 2017 è stato ricevuto da Donald Trump. Tuttora membro eletto al parlamento ucraino (Partito della Solidarietà Europea), Poroshenko è considerato un oligarca con sospetti collegamenti, la Bbc dice “alleanza segreta”, con l’oligarca del petrolio e dei media, il pro-russo Viktor Medvedchuk che è anche considerato il “padre” degli accordi di Minsk del 2015, dal 27 febbraio 2022 scomparso dagli arresti domiciliari a Kiev dov’è accusato di tradimento e appropriazione indebita di beni pubblici in Crimea e riapparso e nuovamente arrestato il 12 aprile 2022.
Poroshenko fece tutto quel che Biden e gli europei gli avevano chiesto nel 2014 – “Devi essere più bianco della neve, o il mondo intero ti abbandonerà”, gli disse Biden, e gli europei “riformare e modernizzare” – ma è sotto processo in Ucraina per alto tradimento. Nel maggio 2022, gli è stato rifiutato l’ingresso in Lituania per un incontro politico.
Zelensky nel 2019 ha giurato con la frase “Ognuno di noi è un presidente”. All’apparenza è una frase di innocuo populismo che fa il paio con l’italianissimo “uno vale uno”. Non è così certo. Infatti, la frase era rivolta ad una dozzina di influenti persone presenti dentro e fuori la Verkhovna Rada, persone che dal 1991 in poi sono gli oligarchi ucraini. Diversamente da quel che Putin nel 2000 fece con i grandi oligarchi russi convocati nottetempo al Cremlino dove offrì loro un accordo stile “Stato-mafia” – piègati alla mia autorità, stai lontano dalla mia strada e puoi mantenere le tue dimore, i superyacht, i jet privati e le corporazioni multimiliardarie –, Zelensky era cosciente che lo Stato ucraino era a parti invertite rispetto a quello russo nel rapporto con gli oligarchi. Ciò spiega la frase dal sapore squisitamente consociativo tra il neoeletto presidente e gli oligarchi.
In pratica, Zelensky sapeva benissimo, anche dall’oligarca Kolomoisky, suo sponsor televisivo ed elettorale, che in Ucraina “gli oligarchi nel complesso tenderanno a garantire che qualsiasi governo al potere nel prossimo futuro – quello di Zelensky o altro – sia indipendente dal controllo russo. Se, a seguito di un colpo di Stato, arriva al potere un governo filo-russo che è responsabile nei confronti di Putin, gli oligarchi ucraini capiscono che perderanno il loro potere. Per loro, è meglio essere oligarchi nell’Ucraina indipendente piuttosto che nessuno in un’Ucraina controllata dal burattino di Putin. Questo è il motivo per cui questi ragazzi prenderanno provvedimenti per proteggere i loro territori e proteggere l’Ucraina”.
Infatti, il Washington Post scrive che mentre nel 2014 gli oligarchi ucraini erano divisi, nel 2019 videro nelle promesse di Zelensky – nell’ottobre il neopresidente presentò un piano di pace con la Russia – il modo più semplice e meno costoso per mantenere l’unità territoriale dell’Ucraina e continuare a fare felicemente affari. Nonostante le enormi pressioni che riceveva da parte della Nato, degli Usa e dell’Ue, Zelensky ha tenuto in piedi questa linea, perdendo, come abbiamo visto, un’enormità di consensi popolari fino alla fine del 2021. Ma ciò non andava bene perché, come già avvenne con Poroshenko, Zelensky doveva “riformare e modernizzare”.
Intanto, gli Usa, la Nato, alcuni Stati (Polonia, Lituania, Turchia) avevano adottato scelte di “pressione incrementale” sulla Russia fornendo sempre più formazione e armi alle forze più nazionaliste dell’Ucraina al fine di costringere Zelensky ad adottare una scelta di campo definitiva, cioè tagliare i canali attraverso i quali gli “affari” degli oligarchi si potevano condurre tanto con l’Occidente che con la Russia. Questo spiega perché, improvvisamente, nel 2021, Zelensky è passato all’offensiva su tutti i fronti politici. Le principali figure politiche, Poroshenko e Medvedchuk, sono state colpite “bene a pugni”. E la guerra con gli oligarchi è cresciuta in un confronto con l’ucraino più ricco – Rinat Akhmetov. E il numero di avversari è cresciuto ogni mese. Il 2021 è stato l’anno delle “sanzioni”, cioè di provvedimenti amministrativi, dell’amministrazione presidenziale, extra-giudiziari, decisi dal National Security Defence Council per colpire gli oligarchi e costringerli a rispettare le richieste “esterne”. Zelensky doveva far approvare una legge “anti-oligarchi” che il giovane presidente della Verkhovna Rada, Razumkov, non sosteneva perché la considerava un modo per fare processi politici. Dmytro Razumkov, amico di Zelensky sin dall’inizio, è stato indicato dalla squadra presidenziale come sostenitore dei media pro-russi e dei politici sleali col presidente, ed è stato deposto il 7 ottobre 2021. La legge anti-oligarchi stata approvata a novembre 2021 ed è entrata in vigore il 7 maggio 2022.
Da novembre era chiaro alla Russia che ormai Zelensky era definitivamente passato nel campo occidentale e che ogni ipotesi di accordo era evaporata. Infatti, nel discorso di fine anno Putin parlò di “tradimento”, ma indicò nella Nato il principale responsabile per la probabile reazione militare russa verso l’Ucraina.
“Questa guerra è uno stress test”, ha detto la presidente della Commissione europea. Effettivamente, tra alcuni interessi occidentali mascherati dietro le bandiere della “libertà” e della “democrazia” e la Russia. Un’ipocrisia che è costata la vita a molte persone e che ha distrutto un Paese. Ben prima dell’Ue, lo sapeva anche Zelensky quando il 23 febbraio 2022 convocò gli oligarchi, ben 50 “business leaders” che si sono “uniti” a lui, alla “democrazia”, alla “libertà”, all’Ucraina. Parteciparono all’incontro anche i 14 oligarchi che avevano lasciato l’Ucraina il 14 febbraio, rientrati per l’occasione ma subito dopo ripartiti.
La guerra ha ridotto le fortune degli oligarchi che nel settembre 2021 Forbes considerava controllori del 27% del Pil dell’Ucraina. Perdite miliardarie che qualcuno deve ripagare. Infatti, a fine maggio 2022, in una rara intervista, Rinat Akhmetov, il più ricco degli oligarchi, tra l’altro proprietario della Azovstal di Mariupol, ha dichiarato che intenterà una causa contro la Russia per ottenere il “rimborso adeguato a tutti i costi e le entrate perse”.
Messaggio molto realista che implica un non detto: la parte sostanziale dell’industria ucraina è stata distrutta oppure è (e probabilmente resterà per molto tempo) sotto occupazione di forze russe o controllate dalla Russia. Quindi è persa. Parole che Ursula von der Leyen farebbe bene a prendere in seria considerazione invece di dichiararsi con leggerezza “profondamente convinta che, insieme, supererete questa guerra atroce, ricostruirete questo Paese”.
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