La Great resignation, che traduciamo grandi “dimissioni”, ma che significa anche grandi “rassegnazioni”, sta producendo nell’industria del turismo, in accoppiata con le grandi diserzioni dei lavoratori stagionali, una tempesta perfetta praticamente in tutta Europa. “Italia, Grecia, Francia, Spagna: tutte le maggiori destinazioni turistiche si trovano ad affrontare la stessa scomparsa di camerieri, cuochi o addetti alle pulizie, scoraggiati da salari bassi e uno stile di vita squilibrato”, titolava l’altro giorno il quotidiano francese Le Monde. Gli faceva eco lo spagnolo El Pais, scrivendo di “una presunta mancanza di vocazione nel settore”, ma aggiungendo anche “che le lamentele dei datori spesso nascondono un lato B che i lavoratori denunciano: orari interminabili, turni notturni non pagati, tagli salariali per non contribuzione di tutte le ore lavorate e precarietà generalizzata. E nel caso della Catalogna, inoltre, un contratto collettivo scaduto nel 2019″. Il risultato è desolante.
“Quest’estate aspetterai – scrive ancora Le Monde, rivolgendosi a un turista-tipo -. Aspetterai la tua crèpe. Aspetterai in aeroporto. Aspetterai in albergo. Perché non ci saranno abbastanza mani per servirti, non importa dove intendi andare: da Colmar a Heraklion, dalla Puglia a Perros-Guirec, da Saint-Tropez a Siviglia al Nord America. Il turismo del mondo occidentale subisce la scarsità di addetti al turismo, soprattutto per i contratti precari dei lavoratori stagionali e le loro mansioni massacranti. Quanto è stato assorbibile durante le ultime due estati, a causa del calo del numero di turisti stranieri, quest’anno dovrebbe essere più difficile: tutto indica che i nordeuropei riprenderanno la loro grande migrazione verso il sole. Cosa troveranno sulle spiagge dell’Adriatico, dove in Emilia-Romagna l’83% dei professionisti non riesce a trovare personale? E sulle coste spagnole, dove mancano 50 mila stagionali? Le stesse cause, note da tempo, gli stessi effetti, qualunque sia lo stato del mercato del lavoro o le sue modalità di regolazione: i professionisti del settore alberghiero e della ristorazione rilevano la scarsa attrattività del loro settore, la mancanza di personale qualificato e la difficoltà a ospitarli. Buchi negli orari comporteranno chiusure occasionali, una richiesta di maggiore versatilità per i dipendenti o disorganizzazione che potrebbe inficiare la qualità del servizio, come già accade negli aeroporti di Parigi, Londra o Amsterdam. Quest’ultimo caso è sintomatico di un settore che ha preferito separarsi di parte della propria forza lavoro durante la pandemia. Pochi datori di lavoro si aspettavano un così rapido rimbalzo dell’attività e alcuni, per mancanza di visibilità, hanno preferito fare quello che potevano nell’estate del 2020, senza reintegrare i loro soliti lavoratori stagionali. Il settore del tempo libero è stato l’ultimo ad assumere dopo la crisi, in un contesto generale di carenza di manodopera”.
Un’analisi mutuabile in toto anche per l’Italia, o la Spagna. El Pais ha citato il caso di un lavoratore impiegato da 35 anni in un bar-tavola calda nel cuore della Costa Brava: dice di essere pagato più dei suoi coetanei ventenni, ossia 1.200 euro mensili, a cui si aggiunge un “nero” di 500. Lavora sei mesi all’anno, in teoria 40 ore settimanali, ma falsifica i due giorni di riposo consecutivi. “Il primo mese e mezzo abbiamo un giorno libero – ha detto – ma dal 24 giugno a metà settembre non abbiamo nemmeno un giorno di vacanza. Pagano un po’ di più, ma con la mia età non ne vale più la pena. Sono sforzi tremendi”. Il Governo Sanchez sta cercando rimedi: una recente riforma del lavoro tenta di contrastare la precarietà, rendendo più onerose le assunzioni a tempo determinato, e favorendo la stipula di contratti a tempo indeterminato anche per chi viene impiegato stagionalmente, e che può impiegare il resto dei mesi dell’anno anche in formazione. Gli effetti sono ancora incerti.
Tra tutte le cause delle dimissioni e della disaffezione del personale dell’industria turistica, Le Monde ha citato, tra l’altro, anche la “difficoltà a ospitare” i lavoratori da parte delle strutture d’impiego, ed è questa una questione che riguarda direttamente tutto il mondo dell’ospitalità stagionale, dove il personale è chiamato spesso a risiedere in loco, e lontano dalla propria residenza, ma finisce per doversi sistemare precariamente in angoli di resort di risulta, spesso fatiscenti al punto da motivare l’abbandono. Un problema che si presenta frequentemente anche in Italia, dove, nel tentativo di mitigare in fretta l’emergenza lavorativa, il ministro del Turismo Massimo Garavaglia ha proposto di lasciare metà del Reddito di cittadinanza a chi accetta un lavoro stagionale. Ma non è detto che anche questa misura potrà servire. L’ipotesi, peraltro, era già stata avanzata in un report presentato lo scorso autunno al ministero del Lavoro dal comitato scientifico di valutazione del Reddito di cittadinanza (previsto fin dall’inizio, ma nominato solo la scorsa primavera), nel quale documento, come sesta proposta avanzata per la correzione delle criticità legate al Reddito di cittadinanza, si menzionava la “riduzione dell’attuale altissima aliquota marginale che scoraggia il lavoro regolare, portandola dall’80 al 60 per cento e senza limiti di tempo, ma fino alla soglia di imposizione fiscale” (8.174 euro per i redditi da lavoro dipendente e 4.800 euro per quelli da lavoro autonomo). Significa che era già stata giudicata penalizzante la modalità prevista di cumulo tra Rdc e lavoro: di fatto, se il reddito da lavoro pesa per l’80% è evidente che i percettori di Rdc lo rifiutano per non dover abbandonare il sussidio. In pratica, se si guadagnano 100 euro, ne vengono sottratti 80 e il guadagno netto è 20. Troppo sconveniente. Da qui la proposta di abbassare la soglia al 60%. E adesso quella del ministro al Turismo, nella speranza che gli altri ministri competenti (Economia e Lavoro) arrivino a una sintesi prima che hotel, ristoranti, stabilimenti siano costretti a chiusure straordinarie, in un momento in cui quel 13-14% di Pil generato dall’industria del turismo pre-pandemia sembra destinato a numeri ben più alti, visto il grande traino generato per tutta l’economia italiana, in altri settori in evidente difficoltà.
Tra tutti, l’esempio del Veneto è emblematico. Ci sono tre evidenze di particolare interesse nei dati dell’ultimo report di VenetoLavoro, relativi al mese di maggio e al trend dei primi cinque mesi del 2022. La prima: le assunzioni (che complessivamente registrano un bel +42% sull’anno precedente, e +61% sul 2020 e +3% sul 2019) nel comparto turistico segnano +130%. La seconda: continua a crescere il numero delle dimissioni da contratti a tempo indeterminato: nei primi cinque mesi dell’anno se ne sono registrate 51.600, il 32% in più rispetto al 2021 e il 35% in più rispetto al 2019. La maggior parte dei dimissionari trova una nuova occupazione entro un mese (57%), il 44% già nei primi 7 giorni. Se chi lavorava nell’industria si ricolloca spesso nello stesso settore (78% dei dimissionari), oltre la metà di chi lavorava nel commercio e nel turismo trova lavoro in un altro settore e due su tre in un diverso comparto. Maggiore mobilità si registra invece a livello di profili professionali: se tra le high skills, un terzo dei dirigenti e dei tecnici dimissionari cambia lavoro pur accettando di scendere di livello, i medium skills (impiegati, operai specializzati e professioni qualificate) tendono a rimanere nello stesso livello. La terza evidenza: al 31 maggio 2022 i disoccupati iscritti ai Centri per l’impiego del Veneto risultano complessivamente 383.300, di cui 270.700 disoccupati disponibili e 112.600 persone attualmente in sospensione perché occupate temporaneamente o perché in conservazione della condizione di disoccupazione per ragioni di reddito.
Le conclusioni confermano i trend europei: un clamoroso rimbalzo dell’industria del turismo, che genera una domanda di personale ben superiore a qualsiasi aspettativa; un’accentuata selezione operata non dalle imprese, ma dai lavoratori, che non temono di rifiutare l’assegnazione o abbandonano quella che hanno già; la certezza, per chi si rimette sul mercato, di individuare un nuovo posto di lavoro in breve tempo. In più, un’altra connotazione, stavolta più italiana: l’accettazione dello status di disoccupazione da parte di moltissimi, nient’affatto inclini ad abbandonare i sussidi in cambio di un modestissimo incremento di reddito.
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