Secondo il Financial Times “è arrivato il tempo della dura medicina”. Il Wall Street Journal registra i timori di recessione che attraversano le borse e spiegano la reazione all’aumento del costo del denaro deciso dalla Fed in modo più drastico rispetto alla Bce e alla Banca d’Inghilterra. Si può davvero tornare alla “normalità” mentre c’è la guerra in Ucraina, la Russia taglia il gas all’Europa e in America la benzina tocca livelli mai raggiunti dopo la crisi petrolifera degli anni 70?
I banchieri centrali fanno il loro mestiere, anche se non è detto che lo facciano bene, perché il loro modo di combattere l’aumento dei prezzi apre la porta a una caduta della domanda e al ritorno della disoccupazione. Ancor peggio dell’inflazione, infatti, c’è il suo contrario: la deflazione. Non siamo a questo punto e può darsi che dopo lo scossone iniziale si torni fin da domani a un certo equilibrio, ma per i Paesi che non hanno ancora recuperato il livello di reddito e di prodotto lordo del 2019, prima cioè della pandemia, sono guai seri. In cima alla lista c’è senza dubbio l’Italia.
Christine Lagarde ha commesso un’altra delle sue gaffe non per quello che ha detto, ma per quello che non ha detto. Al termine di un vertice straordinario è dovuta intervenire Isabel Schnabel, che pure non è una “colomba”, per evitare il peggio, annunciando che in ogni caso la Bce avrebbe utilizzato gli strumenti monetari per impedire che parta una nuova speculazione sui debiti sovrani: in sostanza, la banca centrale può riacquistare i titoli in scadenza in base alle esigenze del mercato, senza rispettare le quote nazionali. Un sollievo per l’Italia, infatti lo spread dei Btp decennali è tornato al “fisiologico” 2% rispetto al Bund tedesco. Lo “scudo anti-spread” funziona, basta l’annuncio. Ma per quanto tempo? E quei 200 punti base sono davvero un fardello del quale l’Italia non si libererà mai?
Il Governatore Ignazio Visco ha detto che non c’è ragione per pensarlo, l’economia italiana oggi ha i fondamentali a posto, cominciando dalle banche. E questa è una delle differenze di fondo rispetto al 2011, tuttavia lo spettro di una nuova crisi del debito turba le notti dei risparmiatori e del Governo.
Tra i grand commis di palazzo Chigi c’è preoccupazione, uno stato d’animo che presumibilmente rispecchia anche quello di Mario Draghi. È evidente che i partiti sono entrati nel tunnel elettorale e la maggioranza ballonzola in modo sempre più erratico. La prima domanda è che politica di bilancio si potrà fare con un Parlamento dove la parola d’ordine ormai è spendere e spandere. Sarà una corsa in mezzo a un campo minato. Ciò avrà conseguenze anche sul Pnrr. Gli obiettivi di quest’anno verranno raggiunti, ma si tratta per lo più di riforme e impegni a media scadenza, sono fondamentali, ma ancor più essenziale è “mettere a terra” i progetti. E qui s’incontrano le maggiori difficoltà: dalla giungla delle autorizzazioni all’impatto dell’inflazione sui costi fino ai colli di bottiglia strutturali, come la mancanza di manodopera a tutti i livelli.
Le semplificazioni non hanno semplificato a sufficienza. Si poteva fare di più soprattutto nella prima fase. Non solo. Emerge chiaramente un errore di fondo: manca un’impostazione chiara su dove investire, con quali obiettivi e con quali controlli. È stato deciso già nel luglio 2020 di chiedere alle amministrazioni pubbliche centrali e periferiche di proporre progetti nell’ambito delle sei generiche direttrici e poi procedere al loro finanziamento “per quote”. Il rischio che ormai si materializza è la dispersione. La peggiore congiuntura economica richiede di modulare in modo diverso le priorità, accelerando ovunque possibile i cantieri che possono essere aperti in modo rapido, anche a costo di lasciare indietro i progetti che richiedono tempi più lunghi. Una difficile selezione che ha bisogno di una forte capacità decisionale al vertice, ma con questo clima politico non è aria.
Il Pnrr può essere usato come uno strumento anti-recessivo oppure può finire in un circolo vizioso. Proprio il rischio che l’Italia sprechi l’occasione è l’ombra che grava sui mercati e sui Paesi dell’Ue i quali finanziano pro quota le risorse europee. Può darsi che agisca sempre un antico pregiudizio, ma il sospetto è che i 200 miliardi di euro possano finire in gran parte nei rivoli della spesa pubblica corrente, che servano per tamponare i redditi erosi dall’inflazione e dalla stagnazione con tanti saluti alla modernizzazione, agli investimenti, alla crescita. Non bisogna dimenticare che il Pnrr dovrebbe garantire nei prossimi cinque anni una crescita pari a un punto percentuale che potrebbe compensare gli eventuali effetti recessivi della stretta monetaria. Ma se i lavori non partono, se i posti di lavoro non aumentano, allora l’intero piano crolla.
Quei duecento punti base di spread oggi si spiegano così, non tanto con il livello assoluto del debito pubblico. Ecco perché a palazzo Chigi si suda freddo nonostante la calura.
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